Ci sono dei libriccini, pochi in verità, capaci di affrontare i grandi temi della vita con una semplicità e una leggerezza che sono invidiabili e e che a lettura ultimata lasciano sazi di una serenità che è la consapevolezza o di aver trovato conferma delle proprie convinzioni, o di avere appreso qualcosa di importante per la propria esistenza. E’ questo il caso del giapponese Il magico studio fotografico di Hirasaka, dove Hirasaka è il titolare di un laboratorio fotografico del tutto particolare, perché lì, con un’accoglienza familiare, con una gentilezza particolare che si rivela anche con l’offerta di una tazza di tè si accolgono quelli che ormai hanno lasciato il nostro mondo e si apprestano ad entrare nell’altro; ed è lì che a tutti vengono consegnati degli scatoloni che contengono foto ricordo della loro vita, dando altresì l’opportunità di sceglierne una per ogni anno che è stato vissuto, al fine di comporre una lanterna magica che proietta ciò che è stata la propria esistenza. Non si esaurisce qui il servizio del signor Hirasaka, perché offre la possibilità di rivivere quello che considerano il ricordo più bello, più prezioso, scattando di quello nuovamente la foto. Così vedremo Hirasaka alle prese con una insegnante novantenne, con un appartenente alla yazuka, la mafia giapponese, e con una ragazzina. Ognuno dei tre ha qualcosa da raccontare di sé: la signora novantenne del suo amore per i bambini e per la dedizione profusa nella sua attività di educatrice, il malavitoso che si rende conto che nonostante tutto è riuscito a fare anche una buona azione e la ragazzina che ha avuto un trascorso non certo dei migliori.
Questo libro è straordinario perché parla della morte attraverso la memoria della vita, perché ci fa sentire più che mai vivi, consapevoli che vivere bene è indispensabile non solo per noi stessi, ma anche per i nostri cari, anche per gli altri, senza dimenticare che ribadisce il valore assoluto della memoria, perché quello che non ricordiamo è come se non fosse mai avvenuto, e invece quello che è rimasto in noi, che ogni tanto siamo capaci di far riemergere, ci dà la misura del grado di consapevolezza di ciò che siamo in quanto siamo stati.
Al termine della lettura, capace di provocare emozioni anche insospettabili, saremo in preda a uno stato d’animo a cui volentieri abbandonarsi, perché la serenità è scesa piano piano in noi, e sta sempre a noi conservarla il più a lungo possibile.
Questo romanzo è un piccolo grande capolavoro.
La presenza dei Bizantini sul suolo italico non fu un fenomeno passeggero, ma si concretizzò dapprima in una guerra iniziata del 535 con il loro sbarco in Sicilia e poi proseguita fino all’intera conquista della penisola. Non si trattò, come noto, di una guerra fra romani (i Bizantini erano i romani d’oriente), ma fra romani e gli ostrogoti che dominavano l’Italia. Fu una guerra che vinsero, ma non certo facilmente, perché gli avversari erano tutt’altro che arrendevoli e combatterono con coraggio e determinazione per difendere il loro regno. Una volta che i Bizantini si trovarono padroni dell’intera penisola non ebbero abbastanza tempo per tirare il cosiddetto fiato, perché l’Italia si rivelava molto appetibile e non facilmente difendibile. E così pertanto all’incirca nel 569 si affacciarono sulle nostre terre i Longobardi, impadronendosi di gran parte dell’Italia settentrionale, ma ecco che da lì a poco valicarono le Alpi anche i Franchi, in qualità di alleati dell’impero di Bisanzio. Non c’era pace per le popolazioni italiche, anzi ci fu una continua serie di scontri che esasperarono i civili, vessati anche dalle scorrerie nelle campagne con predazioni per il sostentamento degli eserciti. Non vado oltre, perché non intendo di certo sostituirmi a Giorgio Ravegnani per parlare di un periodo storico di presenza bizantina che va appunto dal 535 fino al 15 aprile 1071, data in cui Bari, arrendendosi al normanno Roberto il Guiscardo, segna la scomparsa definitiva in Italia del dominio dei Romani d’oriente .
Come Ravegnani sia riuscito a condensare in sole 244 pagine quasi cinque secoli e mezzo, caratterizzati da guerre continue, da alleanze, anche strane, da tradimenti ripetuti, può sembrare a prima vista un mistero, ma la ben nota capacità di sintesi del docente, anzi ex avendo maturato la meritata quiescenza, qui si è esaltata ed è riuscita a raggiungere un livello di completezza di notizie invidiabile, tanto più che si accompagna a una gradevolezza della lettura.
Scritto nel 1939 e pubblicato nel 1941, Pioggia nera, il cui titolo originale Il pleut, bergère… allude a una nota filastrocca infantile, è un romanzo breve che, tuttavia, riesce a condensare nelle sue 127 pagine, con una trama avvincente, una vicenda di fantasia, ma che, per com'è narrata, potrebbe essere benissimo accaduta veramente. Se il filo conduttore dell'opera è la ricerca da parte della polizia di un pericoloso anarchico, un'indagine non priva di tensione e particolarmente coinvolgente, essa si fa tuttavia notare ed apprezzare per la straordinaria capacità dell'autore di far vedere il mondo, i fatti, le persone, l'ambiente attraverso gli occhi di un bambino.
Ci troviamo in Normandia, in una piccola città, dove i coniugi Lecoeur, commercianti di tessuti lavorano dalla mattina alla sera per mantenere loro stessi e il loro figlioletto Jerome. E' una vita modesta, ma senza particolari privazioni, e, per certi aspetti, quieta e nel complesso serena. Tuttavia, quest'esistenza viene sconvolta dall'arrivo della zia Valerie, una donna abbastanza ricca e decisa a non trascorrere da sola gli ultimi anni della sua vita. Nonostante il suo pessimo carattere, i Lecoeur accettano di dividere con lei le due stanze del loro appartamentino sperando di ereditare una casa di campagna, di cui la zia non è più in possesso, ma di cui rivendica la restituzione. Nascono inevitabilmente delle tensioni e dei conflitti, soprattutto con il nipotino Jerome, il cui piccolo angolo di libertà casalingo viene di fatto soppresso dalla presenza astiosa ed ingombrante della donna.
Il bambino, a casa da scuola per evitare di essere contagiato da un'epidemia di scarlattina, trascorre il suo tempo guardando, attraverso la finestra della sua camera, i cui vetri sono bagnati dalla pioggia che cade senza sosta, quella di un appartamento della casa di fronte, in cui vivono, in condizioni disagiate, ma dignitose, i Rambures, un piccolo nucleo familiare costituito da un bimbo tubercolotico e sua nonna.
E' un'epoca di tensioni sociali, di scioperi, di gesta sconsiderate, fra cui quella che porta Gaston Rambures - rispettivamente padre del piccolo e figlio della donna - a compiere un attentato durante una visita di stato che porta alla morte di un gendarme. Braccato dalla polizia, che ha messo una taglia di 20.000 Franchi sulla sua testa, cerca rifugio ovunque. Sarà Jérome a intuire dove si trova, ma non lo dirà; pur stando attento a non tradire il suo segreto ingaggerà una lotta con la zia, un duello fatto da parte della donna di crudeli e sottili ripicche. Avida e avara, attirata dalla taglia, capirà dov'è il nascondiglio e lo dirà alla polizia, attirata non solo da quei denaro, ma anche per fare un dispiacere al nipote, che ha maturato da tempo una naturale simpatia per quel povero bimbo dirimpettaio malato di tubercolosi.
Non aggiungo altro della trama, ma mi corre l'obbligo di evidenziare come in questa breve prosa ricorrano tutti i temi cari a Simenon: i proprietari di campagna gretti, altezzosi, corpi in decomposizione incapaci di dare una svolta a una vita vacua, ma inclini all'astio e all'acidità con gli altri esseri umani con cui vengono in contatto, la piccola borghesia commerciale (rappresentata dai Lecoeur), all'epoca una classe in progressiva crescita, disposta a sacrifici per elevarsi ulteriormente, l'inclemenza del tempo che ingrigisce ulteriormente una vita ripetitiva e avara di soddisfazioni, l'eterna lotta fra le classi meno abbienti e chi detiene il potere, gli inevitabili attriti generazionali.
L'ambientazione è come al solito perfetta e le descrizioni sono così attente che pare di vedere la piazza del mercato, si ha la sensazione di udire il tamburellare della pioggia, si avverte l'umidità che si va espandendo.
Ma è la fine analisi psicologica degli individui, dei protagonisti che come al solito incanta e stupisce, una capacità che Simenon profonde in tutti i suoi romanzi e che per questo fa di lui uno dei più grandi narratori di tutti i tempi.
Mi sembra superfluo aggiungere che Pioggia nera è un libro da non perdere assolutamente.
Prosegue la ricerca del Sacro Graal da parte dell’intrepido arciere Thomas di Hookton, in un’avventura dietro l’altra, fra guerre combattute sul suolo di Francia e inganni e imboscate di altri intenzionati a mettere le mani sulla magica coppa. E così in questo terzo romanzo, intitolato La spada e il calice, ne accadono di tutti i colori perché Thomas, al servizio del Conte di Northampton, con l’aiuto di un manipolo scelto di arcieri va alla conquista della fortezza di Castillon d’Arbizon, impresa che gli riesce grazie all’astuzia. Tuttavia non è che l’inizio di una molteplicità di eventi che non penso sia giusto citare, onde non privare i lettori del piacere della scoperta; al riguardo mi limiterò a dire che dopo tanti patemi d’animo si avrà un lieto fine. E il Graal? Verrà trovato? Non dico niente, invito solo a leggere il libro per avere la risposta.
Benché a volte sfogliando le pagine si abbia l’impressione di avere per le mani qualcosa di già noto, non è però così, a riprova della grande creatività dell’autore, che continua ad eccellere nella descrizione delle battaglie, tanto che si ha l’impressione di partecipare allo scontro, il che è veramente cosa non da poco. E se è vero che Cronwell non approfondisce più di tanto le caratteristiche dei personaggi lo si perdona volentieri perché quel privilegiare l’azione consente a chi legge di trascorrere alcune ore spensieratamente.
Con questo non intendo dire che l’autore sia superficiale, addirittura banale, ma che certi protagonisti, profusi a piene mani, meriterebbero più attenzione, con una maggiore e più approfondita analisi psicologica, circostanza che eleverebbe ulteriormente la qualità dell’opera.
Comunque, alla luce di tanti romanzi pseudo storici di recente pubblicazione, questi di Cronwell, oltre a non sfigurare, si pongono su un livello decisamente superiore, non evidenziando particolari lacune e anzi mostrando una soddisfacente e costante qualità.
Nell’estate del 1914 l’intera Europa è sull’orlo del precipizio, perché a Sarajevo è stato ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e per il gioco delle alleanze sussiste il rischio dello scoppio di una guerra che finirebbe con il coinvolgere quasi tutti i paesi europei. Inoltre il Regno Unito è minacciato dalla crisi irlandese che potrebbe incrinare irreparabilmente l’intera struttura dell’impero, rivelandosi un problema ben più grave e impellente dell’intervento in un conflitto. E’ questo lo sfondo dell’ultimo libro di Robert Harris, capace, come sempre, di mescolare storia e romanzo. Per far questo ricorre alle lettere inviate da Lord Herbert Asquith, primo ministro dell’epoca, all’amante Venetia Stanley, figlia di un ricco Lord e più giovane di oltre trent’anni. Come precisa l’autore in una nota agli inizi, le lettere succitate sono autentiche, come pure i telegrammi, gli articoli di giornale, i documenti ufficiali, la corrispondenza fra Venetia Stanley e Edwin Montagu. Invece le lettere inviate da Venetia Stanley a Lord Asquith sono frutto d’invenzione, come immaginario è anche l’agente speciale Paul Deemer. La corrispondenza fra il primo ministro e l’amante è giornaliera, e spesso si tratta di più lettere, missive in cui il capo dell’esecutivo il più delle volte cerca uno sfogo e un conforto ai suoi problemi di governo, svelando però eventi e decisioni segretissime, che per fortuna non finiscono nelle mani di una eventuale spia. Tuttavia, inevitabilmente, in tutto quel comunicare con Venetia può accadere un intoppo, come quello del ritrovamento da parte di alcuni cittadini di telegrammi riservati, mostrati all’amante durante i giri in auto del venerdì e poi gettati dal finestrino. E’ così che il nascente servizio segreto inglese si allarma e decide di controllare la posta di Lord Asquith, affidandone l’incarico all’agente Paul Deemer. Il romanzo, che è prevalentemente una storia d’amore, tende ad assumere anche la caratteristica della spy story e poco importa che le notizie riservate non finiscano nelle mani delle spie tedesche (la Gran Bretagna nel frattempo è entrata in guerra con la Germania), perché, a parte la grave irregolarità di comportamento del primo ministro, resta il rischio più che fondato che possano finire nelle mani nemiche. Quindi, benché non siamo in presenza del classico romanzo di spionaggio, la suspense non manca, e comunque l’opera si fa apprezzare soprattutto per questa tormentata vicenda amorosa, che Venetia a un certo punto decise opportunamente di troncare, scegliendo la compagnia di uno spasimante che da tempo era in speranzosa attesa.
Precipizio è un libro particolare, più affine a Monaco che a L’ufficiale e la spia, entrambi dello stesso autore, e si muove nel difficile e infido mondo della politica, ben descritto e in cui si agitano personaggi veri come Churchill.
In alcuni momenti il ritmo rallenta, in altri si velocizza, ma avviene sempre per libera scelta dell’autore, scelta che ho trovato più che giustificata. L’ambiente anglosassone di inizi secolo e le atmosfere sono rese con la consueta abilità e contribuiscono non poco alla piacevolezza di un romanzo che, senza essere il migliore di Harris, rientra tuttavia fra i suoi più riusciti.
Nell’estate del 1914 l’intera Europa è sull’orlo del precipizio, perché a Sarajevo è stato ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e per il gioco delle alleanze sussiste il rischio dello scoppio di una guerra che finirebbe con il coinvolgere quasi tutti i paesi europei. Inoltre il Regno Unito è minacciato dalla crisi irlandese che potrebbe incrinare irreparabilmente l’intera struttura dell’impero, rivelandosi un problema ben più grave e impellente dell’intervento in un conflitto. E’ questo lo sfondo dell’ultimo libro di Robert Harris, capace, come sempre, di mescolare storia e romanzo. Per far questo ricorre alle lettere inviate da Lord Herbert Asquith, primo ministro dell’epoca, all’amante Venetia Stanley, figlia di un ricco Lord e più giovane di oltre trent’anni. Come precisa l’autore in una nota agli inizi, le lettere succitate sono autentiche, come pure i telegrammi, gli articoli di giornale, i documenti ufficiali, la corrispondenza fra Venetia Stanley e Edwin Montagu. Invece le lettere inviate da Venetia Stanley a Lord Asquith sono frutto d’invenzione, come immaginario è anche l’agente speciale Paul Deemer. La corrispondenza fra il primo ministro e l’amante è giornaliera, e spesso si tratta di più lettere, missive in cui il capo dell’esecutivo il più delle volte cerca uno sfogo e un conforto ai suoi problemi di governo, svelando però eventi e decisioni segretissime, che per fortuna non finiscono nelle mani di una eventuale spia. Tuttavia, inevitabilmente, in tutto quel comunicare con Venetia può accadere un intoppo, come quello del ritrovamento da parte di alcuni cittadini di telegrammi riservati, mostrati all’amante durante i giri in auto del venerdì e poi gettati dal finestrino. E’ così che il nascente servizio segreto inglese si allarma e decide di controllare la posta di Lord Asquith, affidandone l’incarico all’agente Paul Deemer. Il romanzo, che è prevalentemente una storia d’amore, tende ad assumere anche la caratteristica della spy story e poco importa che le notizie riservate non finiscano nelle mani delle spie tedesche (la Gran Bretagna nel frattempo è entrata in guerra con la Germania), perché, a parte la grave irregolarità di comportamento del primo ministro, resta il rischio più che fondato che possano finire nelle mani nemiche. Quindi, benché non siamo in presenza del classico romanzo di spionaggio, la suspense non manca, e comunque l’opera si fa apprezzare soprattutto per questa tormentata vicenda amorosa, che Venetia a un certo punto decise opportunamente di troncare, scegliendo la compagnia di uno spasimante che da tempo era in speranzosa attesa.
Precipizio è un libro particolare, più affine a Monaco che a L’ufficiale e la spia, entrambi dello stesso autore, e si muove nel difficile e infido mondo della politica, ben descritto e in cui si agitano personaggi veri come Churchill.
In alcuni momenti il ritmo rallenta, in altri si velocizza, ma avviene sempre per libera scelta dell’autore, scelta che ho trovato più che giustificata. L’ambiente anglosassone di inizi secolo e le atmosfere sono rese con la consueta abilità e contribuiscono non poco alla piacevolezza di un romanzo che, senza essere il migliore di Harris, rientra tuttavia fra i suoi più riusciti.
Isabella d’Este (Ferrara, 17 maggio 1474 – Mantova, 13 febbraio 1539).
Inizio con le classiche date di nascita e di morte proprio per porre in risalto il periodo storico, in primis caratterizzato dalle grandi esplorazioni geografiche (la scoperta dell’America è del 1492), e poi dal conflitto pressoché permanente fra Francia e Spagna che si svolse soprattutto in Italia. Ecco, Isabella d’Este è uno dei personaggi, se non il personaggio di maggior rilievo di quest’epoca, una dama, Madama la Marchesa, che non solo sarà poi ricordata per la sua elevata cultura e la passione per le arti, ma anche perché dovette misurarsi con gli eventi di anni turbolenti, caratterizzati da tradimenti nelle alleanze, da voltafaccia, da continui attriti che fecero sì che non ci fu mai un periodo di effettiva pace. E lei, sposa di Francesco II Gonzaga, bruttino e senz’altro meno colto, più dedito alle arti della guerra che all’esercizio della politica, supplì alle carenze del coniuge, destreggiandosi abilmente, a tutela sia della signoria di Mantova acquisita per matrimonio, sia di quelle con i cui reggenti era imparentata, e cioè Ferrara, Urbino e Milano. Era difficile rimanere a galla per un uomo scaltro e possiamo immaginare quanto quasi fosse impossibile per una donna, eppure lei vi riuscì, senza rinunciare peraltro alla sua passione per il bello, per le arti, di cui fu senz’altro un faro per tutta l’Europa. Se pensiamo al significato del termine protagonista, ecco lei fu appunto la grande protagonista, capace di trattare da pari a pari con re, imperatori e pontefici, senza mai venir meno alla sua femminilità che la rendeva bella più di quanto non fosse. A questo punto credo che sorga la curiosità di conoscerla e a ciò ha provveduto con un’opera di grande bellezza il mantovano Giannetto Bongiovanni, fornendo un’immagine che scaturisce vivida dalle pagine, che scorrono con grande piacere, ricche di notizie esposte non in modo pedante, ma molto avvincente, quasi che, anziché di un saggio storico, si trattasse di un romanzo. Viene naturale accostare l’autore a una grande narratrice che tanto ha scritto dei Gonzaga e mi riferisco a Maria Bellonci; in effetti i due non hanno poco in comune, caratterizzati dall’entusiasmo con cui parlano dei loro personaggi, capaci di dare una visione di una dinastia, quella dei Gonzaga, che ha costituito per un non breve lasso di tempo un preciso riferimento a livello europeo. E per quanto Isabella di nascita non fosse una Gonzaga, ma una della casa d’Este, finì con il diventare dei Gonzaga la maggiore e migliore esponente. Fu lei ad arricchire di quadri e di sculture la residenza nobiliare e fu sempre lei che arrivò a dettare la moda, di cui si teneva conto perfino alla corte di Parigi. E poi ancora lei, moglie devota di un marito che la tradiva ripetutamente, spesso con baldracche di infimo ordine, fu il suo più valido consigliere, capace di condurlo nella difficile tenzone dei giochi di potere, in cui lui, esperto uomo d’armi, di certo non eccelleva.
Giannetto Bongiovanni è stato in grado di darci un ritratto esauriente di questa grande donna, dalla sua venuta a Mantova fino alla sua morte, con meticolosità, ma senza risultare greve, insomma vien da dire – e non è esagerato – “tanto di cappello”.
La ricerca del Santo Graal, cioè la coppa utilizzata da Gesù Cristo nell’ultima cena, ha rappresentato in passato l’oggetto di tante leggende, visto che alla reliquia venivano attribuite grandiose proprietà taumaturgiche, fatto di per sé inspiegabile trattandosi di un oggetto, ma che affonda le radici in una religiosità medievale fatta prevalentemente di simboli. Ebbene, anche nel Cavaliere nero prosegue la ricerca del Graal da parte di Thomas di Hookton, la cui famiglia originaria, peraltro francese, i Vexille, aveva posseduto la tanto agognata reliquia, poi andata dispersa in occasione della diaspora che aveva colpito i suoi membri all’epoca della crociata contro i Catari.
Il romanzo presenta la caratteristica di iniziare e di finire con due famose battaglie, di cui la prima fu quella di Neville’s Cross, che ha preso il nome della croce di pietra eretta da Lord Neville per indicare la località della vittoria, combattuta fra un modesto raggruppamento di truppe inglesi e un grosso esercito scozzese, che ne uscì sconfitto nonostante tutte le previsioni grazie ancora una volta al micidiale utilizzo dei famosi lunghi archi inglesi. La seconda avvenne sul suolo francese in Bretagna nel corso dell’assedio alla cittadina di La Roche Derrien da parte di ingenti truppe francesi al comando di Carlo di Blois, nipote del Re di Francia, anche questa volta contro le modeste truppe inglesi asserragliate a difesa dell’abitato e dei poco numerosi soldati accorsi in soccorso. Nonostante l’abilità del comandante francese, che architettò una ingegnosa trappola, solo in parte riuscita, gli assedianti furono sconfitti e lo stesso illustre condottiero cadde prigioniero; ancora una volta al risultato positivo dello scontro concorsero in modo determinante gli arcieri inglesi.
Il principale protagonista è sempre Thomas di Hookton, che è un arciere, uno dei migliori, bravo anche tatticamente, e in entrambe le le battaglie si fa onore, ma fra l’uno e l’altro scontro si rende protagonista della ricerca del Graal, inanellando un’avventura dietro l’altra, senza un attimo di respiro, a riprova della straordinaria creatività di Bernard Cornwell. Tuttavia il narratore inglese, per mantenere alto il ritmo della narrazione, va poco in profondità nella descrizione dei personaggi, ma in cambio scrive delle battaglie in modo entusiasmante, passando indifferentemente e bene da una inquadratura generale dell’evento ai particolari dello stesso, ai singoli duelli, agli atti di eroismo e di vigliaccheria, in una tensione che attrae irresistibilmente il lettore.
Non c’è da stupirsi quindi se le pagine scorrono veloci, se è costante il desiderio di sapere cosa accadrà dopo, se la battaglia sembra uscire dalle pagine per materializzarsi davanti ai nostri occhi.
Arrivati alla fine si è soddisfatti per aver trascorso piacevolmente un po’ di tempo, senza dover spremere le meningi, e altresì contenti di sapere che la ricerca del Graal non è terminata e che proseguirà con un altro libro.
Ignoravo l’esistenza di questo romanzo fino a quando, facendo alcune ricerche in Internet, ne sono venuto a conoscenza ed è bastato leggere due righe di presentazione per destare in me curiosità e interesse per un’opera che speravo, non sbagliandomi, di sicuro valore. La vicenda in breve è abbastanza semplice, con molti bambini londinesi che nell’imminenza del secondo conflitto mondiale sono inviati per sicurezza in campagna ospiti di famiglie resesi disponibili ad ospitarli. Fra questi c’è Willie, un bimbo chiuso e timoroso, con il corpo coperto di lividi, che approda alla casa del signor Tom Oakley, un uomo di mezza età che vive da tempo da solo dopo la morte, in ancor giovane età della moglie, a causa di un parto a seguito del quale è deceduto pure il nascituro. Si ha l’’incontro così fra un ragazzino traumatizzato dalla madre, donna instabile di mente, e un vedovo che si è isolato e che poco accetta i contatti con gli abitanti del villaggio. Nonostante questi caratteri poco a poco avviene un trasformazione con Willie che perde le paure e diventa sicuro di sé e Tom che riversa sul bambino tutto l’amore che non ha potuto dare alla moglie e al figlio prematuramente scomparsi, rendendolo una persona ben diversa da quella conosciuta e conferendogli una socievolezza del tutto inaspettata. Nonostante la guerra tutto sembra procedere per il meglio fino a quando la madre scrive chiedendo che il bambino torni da lei e così avviene, con grande dispiacere di Willie e di Tom. Una volta a Londra il bambino non dà più notizie e allora Tom, disperato, va alla sua ricerca e fa un orribile scoperta. Non vado oltre, sarebbe ingiusto togliere al lettore il piacere di leggere le pagine successive di questa vicenda; tuttavia, mi preme rassicurare che il finale non è tragico, una gioia per chi si appassiona a due protagonisti veramente indovinati, al piccolo Willie che piano piano esce dai suoi incubi e al signor Tom, un burbero dal cuore d’oro.
Il romanzo è scritto con delicatezza, con analisi psicologiche assai profonde, ma non pedanti, accompagnate da descrizioni assai riuscite dell’ambiente e con tanti altri attori, ognuno con la personalità ben definita e perfettamente integrati nella trama.
Personalmente ho divorato le pagine, a volte trepidante, altre commosso, e comunque sempre avvinto da una narrazione che procede lineare senza mai incepparsi, e giunto alla fine ho compreso perché questo libro da una quarantina di anni è di successo per adulti e ragazzi, e come possa esserlo a maggior ragione oggi. In un’epoca quale l’attuale in cui si è dimenticato il significato del termine umanità, inteso come sentimento di solidarietà e di comprensione per gli altri esseri, ritrovare il valore dei sentimenti autentici è motivo di gioia e di speranza.
Se l’acqua ride è un romanzo di formazione che segue l’evoluzione di un personaggio di una simpatia che ha dell’incredibile, oltre a narrarci di un’epoca non da tanto trascorsa, ma che sembra sbocciare sotto gli occhi di chi legge. Indubbiamente Gambeto, il protagonista, membro di una famiglia di barcaroli, è descritto con una grazia e una sagacia invidiabile; simpatico per le ingenuità proprie dell’età, esilarante nelle sue scoperte sul sesso, è una di quelle figure capaci da sole di dare corpo e nerbo a uno scritto. Già agli inizi ci fa ricordare i nostri anni di scuola (in questo caso le medie inferiori) quando al risveglio la mattina si desidererebbe tanto restare a letto e invece si è costretti a vestirsi e ad andare al proprio dovere di studente, in quella classe dove impera il professore Oio, altro personaggio azzeccato. In verità tutti gli interpreti di questa storia sono indovinati, dal padre che avverte l’incertezza del lavoro di barcarolo alla madre, una donna semplice e timorata di Dio, al fratellino Luciano, un po’ in ombra, ma è giusto che sia così perché più giovane. Eccezionale è poi il nonno Caronte, che da una vita conduce il suo burcio, cioè il barcone, che va a vela e non ha il motore e che quando non c’è vento ha necessità per muoversi, se non a favore di corrente, del cavalante che con il suo quadrupede traina l’imbarcazione, tutte professioni che all’epoca in cui è ambientato il romanzo stanno già scomparendo.
Eppure Gambeto che al termine della scuola sarà anche lui un barcarolo è orgoglioso di quel lavoro, perché stare insieme al nonno è un’esperienza esaltante. Quando seguiamo la navigazione nei fiumi e nei canali seguiamo anche lo sviluppo del ragazzo, la sua crescita, la sua maturazione, il suo risveglio della sessualità, i primi innamoramenti con le gioie, le emozioni, ma anche le trepidazioni che provocano.
Gambeto si innamora a prima vista, come è tipico di quell’età, e ovviamente non mancano le delusioni, tutte esperienza come gli fa capire il nonno.
Inoltre per il ragazzo ogni ansa di fiume, ogni paesino, ogni argine sono una scoperta, è un aprire gli occhi su un mondo che prima non conosceva.
Così, mentre la Teresina, che è il nome del vecchio burcio, scivola sull’acqua il ragazzo matura e senza accorgersi poco a poco diventa uomo.
Grazie a uno stille snello, ma non certamente povero, a una capacità descrittiva a tutta prova, Malaguti ha realizzato un’opera che ha il tocco della grazia, capace di avvincere dalla prima all’ultima pagina, di far talvolta ridere ed altre invece moderatamente commuovere, in un equilibrio perfetto fra realtà e fantasia in cui i sogni di un ragazzo che cresce si evolvono naturalmente.
E’ un percorso, quello di Gambeto, che in altre circostanze e in altri modi abbiamo fatto tutti e questo ritrovare in fondo un po’ di noi è uno dei motivi di pregio di un’opera che a mio parere è un autentico gioiello.
Bernard Cornwell è un narratore britannico, noto per le serie di romanzi storici che ha scritto. Della Storia dei re sassoni ho già letto L’ultimo re e Il cavaliere e il suo re, entrambi molto piacevoli e avvincenti, in grado di far trascorrere piacevolmente un po’ di tempo e caratterizzati dal fatto che l’aspetto creativo è limitato all’indispensabile, presentando invece in modo convincente eventi accaduti realmente, con i protagonisti quasi tutti effettivamente esistiti. La serie è un po’ lunga, articolandosi su tredici romanzi, ed è per questo che ho deciso di passare ad altro che fosse più breve, anche per verificare se cambiando l’argomento avrei trovato lo stesso interesse. L’arciere del re è il primo dei quattro romanzi che compongono la serie di Alla ricerca del Santo Graal, serie che si svolge in un’epoca posteriore (corre il XIV secolo, anziché l’XI) e dico subito che ho ritrovato i pregi di questo autore, capace sempre di avvincere dalla prima all’ultima pagina, con una trama scorrevole, in cui i colpi di scena sono quasi la norma, così che il lettore di certo non finisce per annoiarsi. In verità un difetto che ho riscontrato e che anche in questo romanzo è presente è di non provvedere a una attenta e profonda analisi psicologica dei protagonisti, preferendo invece rimanere un po’ in superficie, anche per privilegiare l’azione. E a proposito di questa nell’Arciere del re troviamo di tutto, dalla conquista sanguinosa della città di Caen, con l’immancabile seguito di saccheggi e di stupri, alla battaglia di Crécy descritta magistralmente, in una serie di pagine con la narrazione che diventa progressivamente incalzante e che quasi rende partecipi dell’evento, con scene che si potrebbero definire apocalittiche, fra cavalli e uomini morenti, con il sangue che poco a poco inzuppa la collina, insomma una vera e propria mattanza in cui come noto risultarono sconfitti i francesi di Filippo VI, vittime soprattutto degli arcieri inglesi di Edoardo III. Queste ultime pagine, che sembrano macchiarsi di rosso tanto è il sangue che scorre, da sole meritano la lettura di un libro di questo autore che ancora una volta ho apprezzato. Comunque, giusto che si sappia, in questa “prima puntata” si accenna solo al Graal, visto che il protagonista principale, l’arciere Thomas, è impegnato a rintracciare una preziosa reliquia, la lancia con cui San Giorgio trafisse il drago, e sottratta alla chiesa inglese di Hookton. Non vado oltre, perché correrei il rischio di svelare troppo e comunque sono più che convinto che chi ama le storie di cappa e spada qui avrà pane per i suoi denti.
Se L’ultimo re, primo romanzo della serie, si concludeva con la battaglia che vedeva sconfitti i danesi, con l’uccisione del loro capo, il feroce Ubba, il secondo episodio si apre con la definitiva decisione dell’intrepido Uhtred di lasciare definitivamente i danesi e di mettere la sua spada al servizio del pio re sassone Alfredo. Da questa decisione, prima avventata, poi frutto di un progressivo e sempre più radicato convincimento, si dipana tutta una serie di avventure di carattere bellico culminanti in una battaglia vittoriosa di re Alfredo sugli invasori danesi, esito a cui ha contribuito in modo determinante con la sua tattica e con la sua abilità di uomo d’arme proprio Uhtred, consapevole ormai che se vuole riprendere allo zio usurpatore il possesso di Bebbanburg deve per forza restare uno delle sua gente, e non certo un nemico della stessa, quale era quando stava con i danesi, fra i quali tuttavia resta ancora qualche suo amico.
E’ innegabile che le vicende di questo personaggio di invenzione si basano tuttavia su fatti storici effettivamente avvenuti e che molti dei protagonisti sono realmente esistiti; tale circostanza offre spessore alla narrazione e permette di comprendere il lungo percorso attraverso il quale c’è stata l’unificazione di territorio e di popolazioni nell’Inghilterra.
L’autore ha indubbiamente uno stile snello e accattivante, capace di rendere in modo apprezzabile le atmosfere di un’epoca particolare, riuscendo anche a ricreare visivamente il teatro in cui si svolgono gli eventi, un po’ meno incisivo forse quando si tratta descrivere lo scontro fra due eserciti, in cui traspare il desiderio di rendere partecipe il lettore, tuttavia senza riuscirci completamente in più di una occasione. In ogni caso la narrazione riesce ampiamente ad avvincere e induce chi legge a rincorrere la trama, desideroso di scoprire gli eventi successivi, soprattutto quando si tratta dell’esito di una battaglia.
Matteotti e Mussolini sono stati due emblemi di una concezione diversa del potere, il primo convinto che il potere risieda nella volontà popolare espressa liberamente e nella democrazia, il secondo avviato a spron battuto verso logiche di dittatura, contrario a ogni confronto di opinioni e di idee diverse.
La differenza di vedute risiede evidentemente nel concetto innato in Matteotti che solo con un contrasto politico paritario il paese Italia potesse vivere le difficili fasi del dopoguerra; per Mussolini non era invece questione di dare un’impronta allo stato affinché l’Italia riuscisse ad avere prospettive economiche e sociali, ma nel suo ego smisurato non poteva che concepire l’identificazione fra la sua persona e l’intera nazione. Si trattava di posizioni sicuramente inconciliabili e in un’aula parlamentare che vedeva primeggiare il movimento fascista senza lasciare spazi all’opposizione Matteotti rappresentava l’unica voce, forte, di dissenso. A fronte di un programma che vedeva solo l’ascesa al potere assoluto di Mussolini, Matteotti contrapponeva un deciso progetto riformista ed era anche l’unica effettiva voce di una politica di opposizione, capace come un pugile di ribattere gli assalti degli avversari. Per il futuro duce divenne in breve una spina nel fianco, che tendeva a condizionarlo sempre di più e che pertanto doveva essere messa a tacere. Forse non intendeva proprio sopprimerlo , ma questo non potremo mai saperlo, forse voleva che le sue minacce fossero più concrete di un avvertimento, sta di fatto però che Matteotti finì con il soccombere non tanto politicamente, ma fisicamente.
Franzinelli nel suo bel saggio tende a togliere quell’alone di mito imputabile soprattutto alla fine violenta del politico polesano, restituendo invece la figura di un uomo di ampi meriti non strettamente legati alla sua opposizione al fascismo, che pure è già molto, ma alla sua capacità di avere una visione dell’umanità che si potrebbe definire molto avveniristica, un uomo che intendeva dare una veste di dignità ai lavoratori senza distinzioni geografiche, insomma un’idea di universalità.
Il libro parla dei rapporti fra Mussolini e Matteotti fin da quando il primo era un membro del partito socialista, il che lascia intendere che entrambi si conoscessero assai bene; proprio tale circostanza giustifica la preoccupazione del secondo per una vendetta del primo dopo il suo discorso alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1924 con cui contestava i risultati elettorali del 6 aprile guastando così la festa del primo ormai convinto di vedere trionfare il fascismo. Assai probabilmente Mussolini la prese come la massima delle offese, ragion per cui Matteotti che, nonostante fosse solo, combatteva strenuamente, doveva essere messo a tacere, così che passarono pochi giorni e il 10 giugno scattò la vendetta.
Franzinelli va oltre la morte di Matteotti, parla delle indagini, di tutte le fasi successive a un delitto di cui ancor oggi si prova l’orrore, con una completezza di grande valore, non disgiunta da un ‘esposizione che privilegia la concretezza alla prolissità.
Da leggere, quindi.
Fumana è come viene chiamata la nebbia nelle zone del Po prossimo alla sua foce. E lì certamente, soprattutto in autunno, anche per l'abbondanza d'acqua spesso stagnante, la nebbia non manca mai, ma non è questo fenomeno atmosferico il protagonista del romanzo, è solo un aspetto della natura che smorza i colori, attenua i rumori, rende difficile vedere all'intorno quando si cammina..
Fumana infatti è il nome di una femmina che, partorita con difficoltà, rimane subito orfana, perché la mamma muore e il padre fugge, non si sa dove, ma senza più ritornare. Le è rimasto un unico parente, il nonno, chiamato Petrolio, e provvede lui ad allevarla, benché inesperto; l'uomo conduce una vita povera, ma libera, andando a pescare nei numerosi canali in cui si divide il grande fiume prima di affondare nell'Adriatico e, per non lasciare sola la bimba, a cui verrà dato il nome di Fumana in quanto attratta irresistibilmente dalla nebbia, la porta con sé sul suo sandolo. Lei cresce così, pescando con la fiocina e conoscendo quel mondo così selvaggio che la circonda. Vivere prendendo pesci sembrerebbe il suo destino, ma non è così, perché lei è una predestinata, una strigossa e lì al paese, Voltascirocco, ce n'è già un'altra, la Lena, che ha votato la sua vita a curare con segni e con erbe gli altri, senza pretendere di essere pagata, accettando al più qualche omaggio in natura. E Lena insegnerà il mestiere a Fumana, vero e proprio punto di svolta del romanzo che pagina dopo pagina si fa sempre più interessante. E' così che Malaguti ci racconta la vita di una donna libera e altruista dalla sua nascita nel 1882 fino alla sua fine, tanti anni con ancor più tanti eventi, come nascite, morti, amori, guerre, sviluppo industriale, piene del Po, perdita delle tradizioni. Per lo più, almeno per quanto concerne i grandi fatti, sono cose che conosciamo già, ma che viste dagli occhi di Fumana assumono evidenze diverse, raccontano di una storia vista dal basso, dagli umili in un piccolo contesto quale è Voltascirocco, perché al di là dell'attività di guaritrice della strigossa c'è un cuore che palpita, c'è un desiderio di amore immenso di una donna che è fiera di essere libera, che trova se stessa nella natura che la circonda, nelle nebbie da cui sembrano giungere voci strane, voci di chi non c'è più. Forse è un sogno, ma Fumana non è pazza, Fumana riesce ad arrivare a una trascendenza che a pochi è riservata.
Ci sono pagine di grande bellezza in cui sembra di udire il sospiro dell'acqua, i richiami degli uccelli, il gracidio delle rane, il respiro del vento, ma soprattutto c'è lei, Fumana, un personaggio che affascina, creato abilmente dall'autore.
Il romanzo è veramente bello, per non dire stupendo, e probabilmente il migliore di quelli che ho letto scritti da Malaguti.
Non so se Montisola sia l'isola lacustre più grande d'Europa, ma quello di cui sono certo è che è un luogo molto bello, che mi è piaciuto immediatamente ancora prima di visitarlo, transitando in auto sulla strada litoranea che attraversa Sulzano, il paese sulla terraferma da cui parte il traghetto che ho poi preso per approdarvi. La si vede bene da lontano, nella parte superiore del lago d'Iseo, più imponente che ridente, un sasso scagliato da un ciclope, o meglio ancora una montagna che emerge dalle acque del lago. E La montagna nel lago è il titolo del bel romanzo giallo che ha scritto Jacopo De Michelis, 576 pagine di un ritmo quasi sempre serrato, che avvincono il lettore dalla prima all'ultima. Se la trama è più che masi convincente, non si possono che apprezzare le descrizioni del paesaggio e dell'atmosfera di questo posto, che sembra completamente isolato dal mondo. La vicenda inizia con il ritrovamento di un uomo non più giovane che era scomparso, ferito gravemente per le torture subite, ancora in vita, ma che morirà nel giro di pochi minuti, senza fornire indicazioni su chi gli ha fatto così del male. La vittima è Emilio Ercoli, il riccone del paese che si è fatto una fortuna non si sa come, più temuto che stimato, ma che sembrerebbe non avere nemici, tranne Nevio Rota, un pescatore del luogo e ovviamente i sospetti si addensano su di lui. E' per difenderlo che ritorna il figlio Pietro da Milano dove è rimasto dodici anni cercando di trovare il successo come giornalista di un grande quotidiano e invece conducendo una vita stentata e di ben poche soddisfazioni, poiché l'unico lavoro che ha trovato è stato quello di scrivere come freelance articoli per un periodico di cronaca nera. Poi la trama, ben strutturata, si sviluppa secondo un criterio logico senz'altro apprezzabile, alla vana ricerca di un altro sospetto onde sviare le indagini su Nevio Rota. E' una figura interessante Pietro, in un certo senso un fallito, pieno di debiti e che sniffa anche coca, un uomo deluso, ma che tuttavia troverà nell'indagine che svolge congiuntamente con un amico agente della polizia municipale l'occasione per il suo riscatto. Mano a mano che si procede emergono personaggi sospetti che si rivelano poi piste sbagliate, ma soprattutto si innesta un aspetto storico legato alla seconda guerra mondiale quando a Montisola, dopo l'8 settembre 1943, era giunto Junio Valerio Borghese, il famigerato comandante della Decima Mas, eleggendo la località a suo feudo personale.
Alla fine i colpi di scena si susseguono e si arriva alla verità, talmente logica che ci si chiede come mai non la si sia vista prima, ma anche quando si scoprirà l'autore del delitto c'è spazio per un'ulteriore sorpresa, che ovviamente non svelo, ma che posso definire un colpo di genio dell'autore.
Non aggiungo altro, se non la raccomandazione di leggere questo romanzo, perché merita ampiamente.
Ultime recensioni inserite
Il magico studio fotografico di Hirasaka - Sanaka Hiiragi
Ci sono dei libriccini, pochi in verità, capaci di affrontare i grandi temi della vita con una semplicità e una leggerezza che sono invidiabili e e che a lettura ultimata lasciano sazi di una serenità che è la consapevolezza o di aver trovato conferma delle proprie convinzioni, o di avere appreso qualcosa di importante per la propria esistenza. E’ questo il caso del giapponese Il magico studio fotografico di Hirasaka, dove Hirasaka è il titolare di un laboratorio fotografico del tutto particolare, perché lì, con un’accoglienza familiare, con una gentilezza particolare che si rivela anche con l’offerta di una tazza di tè si accolgono quelli che ormai hanno lasciato il nostro mondo e si apprestano ad entrare nell’altro; ed è lì che a tutti vengono consegnati degli scatoloni che contengono foto ricordo della loro vita, dando altresì l’opportunità di sceglierne una per ogni anno che è stato vissuto, al fine di comporre una lanterna magica che proietta ciò che è stata la propria esistenza. Non si esaurisce qui il servizio del signor Hirasaka, perché offre la possibilità di rivivere quello che considerano il ricordo più bello, più prezioso, scattando di quello nuovamente la foto. Così vedremo Hirasaka alle prese con una insegnante novantenne, con un appartenente alla yazuka, la mafia giapponese, e con una ragazzina. Ognuno dei tre ha qualcosa da raccontare di sé: la signora novantenne del suo amore per i bambini e per la dedizione profusa nella sua attività di educatrice, il malavitoso che si rende conto che nonostante tutto è riuscito a fare anche una buona azione e la ragazzina che ha avuto un trascorso non certo dei migliori.
Questo libro è straordinario perché parla della morte attraverso la memoria della vita, perché ci fa sentire più che mai vivi, consapevoli che vivere bene è indispensabile non solo per noi stessi, ma anche per i nostri cari, anche per gli altri, senza dimenticare che ribadisce il valore assoluto della memoria, perché quello che non ricordiamo è come se non fosse mai avvenuto, e invece quello che è rimasto in noi, che ogni tanto siamo capaci di far riemergere, ci dà la misura del grado di consapevolezza di ciò che siamo in quanto siamo stati.
Al termine della lettura, capace di provocare emozioni anche insospettabili, saremo in preda a uno stato d’animo a cui volentieri abbandonarsi, perché la serenità è scesa piano piano in noi, e sta sempre a noi conservarla il più a lungo possibile.
Questo romanzo è un piccolo grande capolavoro.
I Bizantini in Italia - Giorgio Ravegnani
La presenza dei Bizantini sul suolo italico non fu un fenomeno passeggero, ma si concretizzò dapprima in una guerra iniziata del 535 con il loro sbarco in Sicilia e poi proseguita fino all’intera conquista della penisola. Non si trattò, come noto, di una guerra fra romani (i Bizantini erano i romani d’oriente), ma fra romani e gli ostrogoti che dominavano l’Italia. Fu una guerra che vinsero, ma non certo facilmente, perché gli avversari erano tutt’altro che arrendevoli e combatterono con coraggio e determinazione per difendere il loro regno. Una volta che i Bizantini si trovarono padroni dell’intera penisola non ebbero abbastanza tempo per tirare il cosiddetto fiato, perché l’Italia si rivelava molto appetibile e non facilmente difendibile. E così pertanto all’incirca nel 569 si affacciarono sulle nostre terre i Longobardi, impadronendosi di gran parte dell’Italia settentrionale, ma ecco che da lì a poco valicarono le Alpi anche i Franchi, in qualità di alleati dell’impero di Bisanzio. Non c’era pace per le popolazioni italiche, anzi ci fu una continua serie di scontri che esasperarono i civili, vessati anche dalle scorrerie nelle campagne con predazioni per il sostentamento degli eserciti. Non vado oltre, perché non intendo di certo sostituirmi a Giorgio Ravegnani per parlare di un periodo storico di presenza bizantina che va appunto dal 535 fino al 15 aprile 1071, data in cui Bari, arrendendosi al normanno Roberto il Guiscardo, segna la scomparsa definitiva in Italia del dominio dei Romani d’oriente .
Come Ravegnani sia riuscito a condensare in sole 244 pagine quasi cinque secoli e mezzo, caratterizzati da guerre continue, da alleanze, anche strane, da tradimenti ripetuti, può sembrare a prima vista un mistero, ma la ben nota capacità di sintesi del docente, anzi ex avendo maturato la meritata quiescenza, qui si è esaltata ed è riuscita a raggiungere un livello di completezza di notizie invidiabile, tanto più che si accompagna a una gradevolezza della lettura.
Pioggia nera - Georges Simenon
Scritto nel 1939 e pubblicato nel 1941, Pioggia nera, il cui titolo originale Il pleut, bergère… allude a una nota filastrocca infantile, è un romanzo breve che, tuttavia, riesce a condensare nelle sue 127 pagine, con una trama avvincente, una vicenda di fantasia, ma che, per com'è narrata, potrebbe essere benissimo accaduta veramente. Se il filo conduttore dell'opera è la ricerca da parte della polizia di un pericoloso anarchico, un'indagine non priva di tensione e particolarmente coinvolgente, essa si fa tuttavia notare ed apprezzare per la straordinaria capacità dell'autore di far vedere il mondo, i fatti, le persone, l'ambiente attraverso gli occhi di un bambino.
Ci troviamo in Normandia, in una piccola città, dove i coniugi Lecoeur, commercianti di tessuti lavorano dalla mattina alla sera per mantenere loro stessi e il loro figlioletto Jerome. E' una vita modesta, ma senza particolari privazioni, e, per certi aspetti, quieta e nel complesso serena. Tuttavia, quest'esistenza viene sconvolta dall'arrivo della zia Valerie, una donna abbastanza ricca e decisa a non trascorrere da sola gli ultimi anni della sua vita. Nonostante il suo pessimo carattere, i Lecoeur accettano di dividere con lei le due stanze del loro appartamentino sperando di ereditare una casa di campagna, di cui la zia non è più in possesso, ma di cui rivendica la restituzione. Nascono inevitabilmente delle tensioni e dei conflitti, soprattutto con il nipotino Jerome, il cui piccolo angolo di libertà casalingo viene di fatto soppresso dalla presenza astiosa ed ingombrante della donna.
Il bambino, a casa da scuola per evitare di essere contagiato da un'epidemia di scarlattina, trascorre il suo tempo guardando, attraverso la finestra della sua camera, i cui vetri sono bagnati dalla pioggia che cade senza sosta, quella di un appartamento della casa di fronte, in cui vivono, in condizioni disagiate, ma dignitose, i Rambures, un piccolo nucleo familiare costituito da un bimbo tubercolotico e sua nonna.
E' un'epoca di tensioni sociali, di scioperi, di gesta sconsiderate, fra cui quella che porta Gaston Rambures - rispettivamente padre del piccolo e figlio della donna - a compiere un attentato durante una visita di stato che porta alla morte di un gendarme. Braccato dalla polizia, che ha messo una taglia di 20.000 Franchi sulla sua testa, cerca rifugio ovunque. Sarà Jérome a intuire dove si trova, ma non lo dirà; pur stando attento a non tradire il suo segreto ingaggerà una lotta con la zia, un duello fatto da parte della donna di crudeli e sottili ripicche. Avida e avara, attirata dalla taglia, capirà dov'è il nascondiglio e lo dirà alla polizia, attirata non solo da quei denaro, ma anche per fare un dispiacere al nipote, che ha maturato da tempo una naturale simpatia per quel povero bimbo dirimpettaio malato di tubercolosi.
Non aggiungo altro della trama, ma mi corre l'obbligo di evidenziare come in questa breve prosa ricorrano tutti i temi cari a Simenon: i proprietari di campagna gretti, altezzosi, corpi in decomposizione incapaci di dare una svolta a una vita vacua, ma inclini all'astio e all'acidità con gli altri esseri umani con cui vengono in contatto, la piccola borghesia commerciale (rappresentata dai Lecoeur), all'epoca una classe in progressiva crescita, disposta a sacrifici per elevarsi ulteriormente, l'inclemenza del tempo che ingrigisce ulteriormente una vita ripetitiva e avara di soddisfazioni, l'eterna lotta fra le classi meno abbienti e chi detiene il potere, gli inevitabili attriti generazionali.
L'ambientazione è come al solito perfetta e le descrizioni sono così attente che pare di vedere la piazza del mercato, si ha la sensazione di udire il tamburellare della pioggia, si avverte l'umidità che si va espandendo.
Ma è la fine analisi psicologica degli individui, dei protagonisti che come al solito incanta e stupisce, una capacità che Simenon profonde in tutti i suoi romanzi e che per questo fa di lui uno dei più grandi narratori di tutti i tempi.
Mi sembra superfluo aggiungere che Pioggia nera è un libro da non perdere assolutamente.
La spada e il calice - di Bernard Cornwell
Prosegue la ricerca del Sacro Graal da parte dell’intrepido arciere Thomas di Hookton, in un’avventura dietro l’altra, fra guerre combattute sul suolo di Francia e inganni e imboscate di altri intenzionati a mettere le mani sulla magica coppa. E così in questo terzo romanzo, intitolato La spada e il calice, ne accadono di tutti i colori perché Thomas, al servizio del Conte di Northampton, con l’aiuto di un manipolo scelto di arcieri va alla conquista della fortezza di Castillon d’Arbizon, impresa che gli riesce grazie all’astuzia. Tuttavia non è che l’inizio di una molteplicità di eventi che non penso sia giusto citare, onde non privare i lettori del piacere della scoperta; al riguardo mi limiterò a dire che dopo tanti patemi d’animo si avrà un lieto fine. E il Graal? Verrà trovato? Non dico niente, invito solo a leggere il libro per avere la risposta.
Benché a volte sfogliando le pagine si abbia l’impressione di avere per le mani qualcosa di già noto, non è però così, a riprova della grande creatività dell’autore, che continua ad eccellere nella descrizione delle battaglie, tanto che si ha l’impressione di partecipare allo scontro, il che è veramente cosa non da poco. E se è vero che Cronwell non approfondisce più di tanto le caratteristiche dei personaggi lo si perdona volentieri perché quel privilegiare l’azione consente a chi legge di trascorrere alcune ore spensieratamente.
Con questo non intendo dire che l’autore sia superficiale, addirittura banale, ma che certi protagonisti, profusi a piene mani, meriterebbero più attenzione, con una maggiore e più approfondita analisi psicologica, circostanza che eleverebbe ulteriormente la qualità dell’opera.
Comunque, alla luce di tanti romanzi pseudo storici di recente pubblicazione, questi di Cronwell, oltre a non sfigurare, si pongono su un livello decisamente superiore, non evidenziando particolari lacune e anzi mostrando una soddisfacente e costante qualità.
Precipizio - Robert Harris
Nell’estate del 1914 l’intera Europa è sull’orlo del precipizio, perché a Sarajevo è stato ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e per il gioco delle alleanze sussiste il rischio dello scoppio di una guerra che finirebbe con il coinvolgere quasi tutti i paesi europei. Inoltre il Regno Unito è minacciato dalla crisi irlandese che potrebbe incrinare irreparabilmente l’intera struttura dell’impero, rivelandosi un problema ben più grave e impellente dell’intervento in un conflitto. E’ questo lo sfondo dell’ultimo libro di Robert Harris, capace, come sempre, di mescolare storia e romanzo. Per far questo ricorre alle lettere inviate da Lord Herbert Asquith, primo ministro dell’epoca, all’amante Venetia Stanley, figlia di un ricco Lord e più giovane di oltre trent’anni. Come precisa l’autore in una nota agli inizi, le lettere succitate sono autentiche, come pure i telegrammi, gli articoli di giornale, i documenti ufficiali, la corrispondenza fra Venetia Stanley e Edwin Montagu. Invece le lettere inviate da Venetia Stanley a Lord Asquith sono frutto d’invenzione, come immaginario è anche l’agente speciale Paul Deemer. La corrispondenza fra il primo ministro e l’amante è giornaliera, e spesso si tratta di più lettere, missive in cui il capo dell’esecutivo il più delle volte cerca uno sfogo e un conforto ai suoi problemi di governo, svelando però eventi e decisioni segretissime, che per fortuna non finiscono nelle mani di una eventuale spia. Tuttavia, inevitabilmente, in tutto quel comunicare con Venetia può accadere un intoppo, come quello del ritrovamento da parte di alcuni cittadini di telegrammi riservati, mostrati all’amante durante i giri in auto del venerdì e poi gettati dal finestrino. E’ così che il nascente servizio segreto inglese si allarma e decide di controllare la posta di Lord Asquith, affidandone l’incarico all’agente Paul Deemer. Il romanzo, che è prevalentemente una storia d’amore, tende ad assumere anche la caratteristica della spy story e poco importa che le notizie riservate non finiscano nelle mani delle spie tedesche (la Gran Bretagna nel frattempo è entrata in guerra con la Germania), perché, a parte la grave irregolarità di comportamento del primo ministro, resta il rischio più che fondato che possano finire nelle mani nemiche. Quindi, benché non siamo in presenza del classico romanzo di spionaggio, la suspense non manca, e comunque l’opera si fa apprezzare soprattutto per questa tormentata vicenda amorosa, che Venetia a un certo punto decise opportunamente di troncare, scegliendo la compagnia di uno spasimante che da tempo era in speranzosa attesa.
Precipizio è un libro particolare, più affine a Monaco che a L’ufficiale e la spia, entrambi dello stesso autore, e si muove nel difficile e infido mondo della politica, ben descritto e in cui si agitano personaggi veri come Churchill.
In alcuni momenti il ritmo rallenta, in altri si velocizza, ma avviene sempre per libera scelta dell’autore, scelta che ho trovato più che giustificata. L’ambiente anglosassone di inizi secolo e le atmosfere sono rese con la consueta abilità e contribuiscono non poco alla piacevolezza di un romanzo che, senza essere il migliore di Harris, rientra tuttavia fra i suoi più riusciti.
Precipizio - Robert Harris
Nell’estate del 1914 l’intera Europa è sull’orlo del precipizio, perché a Sarajevo è stato ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e per il gioco delle alleanze sussiste il rischio dello scoppio di una guerra che finirebbe con il coinvolgere quasi tutti i paesi europei. Inoltre il Regno Unito è minacciato dalla crisi irlandese che potrebbe incrinare irreparabilmente l’intera struttura dell’impero, rivelandosi un problema ben più grave e impellente dell’intervento in un conflitto. E’ questo lo sfondo dell’ultimo libro di Robert Harris, capace, come sempre, di mescolare storia e romanzo. Per far questo ricorre alle lettere inviate da Lord Herbert Asquith, primo ministro dell’epoca, all’amante Venetia Stanley, figlia di un ricco Lord e più giovane di oltre trent’anni. Come precisa l’autore in una nota agli inizi, le lettere succitate sono autentiche, come pure i telegrammi, gli articoli di giornale, i documenti ufficiali, la corrispondenza fra Venetia Stanley e Edwin Montagu. Invece le lettere inviate da Venetia Stanley a Lord Asquith sono frutto d’invenzione, come immaginario è anche l’agente speciale Paul Deemer. La corrispondenza fra il primo ministro e l’amante è giornaliera, e spesso si tratta di più lettere, missive in cui il capo dell’esecutivo il più delle volte cerca uno sfogo e un conforto ai suoi problemi di governo, svelando però eventi e decisioni segretissime, che per fortuna non finiscono nelle mani di una eventuale spia. Tuttavia, inevitabilmente, in tutto quel comunicare con Venetia può accadere un intoppo, come quello del ritrovamento da parte di alcuni cittadini di telegrammi riservati, mostrati all’amante durante i giri in auto del venerdì e poi gettati dal finestrino. E’ così che il nascente servizio segreto inglese si allarma e decide di controllare la posta di Lord Asquith, affidandone l’incarico all’agente Paul Deemer. Il romanzo, che è prevalentemente una storia d’amore, tende ad assumere anche la caratteristica della spy story e poco importa che le notizie riservate non finiscano nelle mani delle spie tedesche (la Gran Bretagna nel frattempo è entrata in guerra con la Germania), perché, a parte la grave irregolarità di comportamento del primo ministro, resta il rischio più che fondato che possano finire nelle mani nemiche. Quindi, benché non siamo in presenza del classico romanzo di spionaggio, la suspense non manca, e comunque l’opera si fa apprezzare soprattutto per questa tormentata vicenda amorosa, che Venetia a un certo punto decise opportunamente di troncare, scegliendo la compagnia di uno spasimante che da tempo era in speranzosa attesa.
Precipizio è un libro particolare, più affine a Monaco che a L’ufficiale e la spia, entrambi dello stesso autore, e si muove nel difficile e infido mondo della politica, ben descritto e in cui si agitano personaggi veri come Churchill.
In alcuni momenti il ritmo rallenta, in altri si velocizza, ma avviene sempre per libera scelta dell’autore, scelta che ho trovato più che giustificata. L’ambiente anglosassone di inizi secolo e le atmosfere sono rese con la consueta abilità e contribuiscono non poco alla piacevolezza di un romanzo che, senza essere il migliore di Harris, rientra tuttavia fra i suoi più riusciti.
Isabella d'Este, marchesa di Mantova - Giannetto Bongiovanni
Isabella d’Este (Ferrara, 17 maggio 1474 – Mantova, 13 febbraio 1539).
Inizio con le classiche date di nascita e di morte proprio per porre in risalto il periodo storico, in primis caratterizzato dalle grandi esplorazioni geografiche (la scoperta dell’America è del 1492), e poi dal conflitto pressoché permanente fra Francia e Spagna che si svolse soprattutto in Italia. Ecco, Isabella d’Este è uno dei personaggi, se non il personaggio di maggior rilievo di quest’epoca, una dama, Madama la Marchesa, che non solo sarà poi ricordata per la sua elevata cultura e la passione per le arti, ma anche perché dovette misurarsi con gli eventi di anni turbolenti, caratterizzati da tradimenti nelle alleanze, da voltafaccia, da continui attriti che fecero sì che non ci fu mai un periodo di effettiva pace. E lei, sposa di Francesco II Gonzaga, bruttino e senz’altro meno colto, più dedito alle arti della guerra che all’esercizio della politica, supplì alle carenze del coniuge, destreggiandosi abilmente, a tutela sia della signoria di Mantova acquisita per matrimonio, sia di quelle con i cui reggenti era imparentata, e cioè Ferrara, Urbino e Milano. Era difficile rimanere a galla per un uomo scaltro e possiamo immaginare quanto quasi fosse impossibile per una donna, eppure lei vi riuscì, senza rinunciare peraltro alla sua passione per il bello, per le arti, di cui fu senz’altro un faro per tutta l’Europa. Se pensiamo al significato del termine protagonista, ecco lei fu appunto la grande protagonista, capace di trattare da pari a pari con re, imperatori e pontefici, senza mai venir meno alla sua femminilità che la rendeva bella più di quanto non fosse. A questo punto credo che sorga la curiosità di conoscerla e a ciò ha provveduto con un’opera di grande bellezza il mantovano Giannetto Bongiovanni, fornendo un’immagine che scaturisce vivida dalle pagine, che scorrono con grande piacere, ricche di notizie esposte non in modo pedante, ma molto avvincente, quasi che, anziché di un saggio storico, si trattasse di un romanzo. Viene naturale accostare l’autore a una grande narratrice che tanto ha scritto dei Gonzaga e mi riferisco a Maria Bellonci; in effetti i due non hanno poco in comune, caratterizzati dall’entusiasmo con cui parlano dei loro personaggi, capaci di dare una visione di una dinastia, quella dei Gonzaga, che ha costituito per un non breve lasso di tempo un preciso riferimento a livello europeo. E per quanto Isabella di nascita non fosse una Gonzaga, ma una della casa d’Este, finì con il diventare dei Gonzaga la maggiore e migliore esponente. Fu lei ad arricchire di quadri e di sculture la residenza nobiliare e fu sempre lei che arrivò a dettare la moda, di cui si teneva conto perfino alla corte di Parigi. E poi ancora lei, moglie devota di un marito che la tradiva ripetutamente, spesso con baldracche di infimo ordine, fu il suo più valido consigliere, capace di condurlo nella difficile tenzone dei giochi di potere, in cui lui, esperto uomo d’armi, di certo non eccelleva.
Giannetto Bongiovanni è stato in grado di darci un ritratto esauriente di questa grande donna, dalla sua venuta a Mantova fino alla sua morte, con meticolosità, ma senza risultare greve, insomma vien da dire – e non è esagerato – “tanto di cappello”.
Il cavaliere nero - Bernard Cornwell
La ricerca del Santo Graal, cioè la coppa utilizzata da Gesù Cristo nell’ultima cena, ha rappresentato in passato l’oggetto di tante leggende, visto che alla reliquia venivano attribuite grandiose proprietà taumaturgiche, fatto di per sé inspiegabile trattandosi di un oggetto, ma che affonda le radici in una religiosità medievale fatta prevalentemente di simboli. Ebbene, anche nel Cavaliere nero prosegue la ricerca del Graal da parte di Thomas di Hookton, la cui famiglia originaria, peraltro francese, i Vexille, aveva posseduto la tanto agognata reliquia, poi andata dispersa in occasione della diaspora che aveva colpito i suoi membri all’epoca della crociata contro i Catari.
Il romanzo presenta la caratteristica di iniziare e di finire con due famose battaglie, di cui la prima fu quella di Neville’s Cross, che ha preso il nome della croce di pietra eretta da Lord Neville per indicare la località della vittoria, combattuta fra un modesto raggruppamento di truppe inglesi e un grosso esercito scozzese, che ne uscì sconfitto nonostante tutte le previsioni grazie ancora una volta al micidiale utilizzo dei famosi lunghi archi inglesi. La seconda avvenne sul suolo francese in Bretagna nel corso dell’assedio alla cittadina di La Roche Derrien da parte di ingenti truppe francesi al comando di Carlo di Blois, nipote del Re di Francia, anche questa volta contro le modeste truppe inglesi asserragliate a difesa dell’abitato e dei poco numerosi soldati accorsi in soccorso. Nonostante l’abilità del comandante francese, che architettò una ingegnosa trappola, solo in parte riuscita, gli assedianti furono sconfitti e lo stesso illustre condottiero cadde prigioniero; ancora una volta al risultato positivo dello scontro concorsero in modo determinante gli arcieri inglesi.
Il principale protagonista è sempre Thomas di Hookton, che è un arciere, uno dei migliori, bravo anche tatticamente, e in entrambe le le battaglie si fa onore, ma fra l’uno e l’altro scontro si rende protagonista della ricerca del Graal, inanellando un’avventura dietro l’altra, senza un attimo di respiro, a riprova della straordinaria creatività di Bernard Cornwell. Tuttavia il narratore inglese, per mantenere alto il ritmo della narrazione, va poco in profondità nella descrizione dei personaggi, ma in cambio scrive delle battaglie in modo entusiasmante, passando indifferentemente e bene da una inquadratura generale dell’evento ai particolari dello stesso, ai singoli duelli, agli atti di eroismo e di vigliaccheria, in una tensione che attrae irresistibilmente il lettore.
Non c’è da stupirsi quindi se le pagine scorrono veloci, se è costante il desiderio di sapere cosa accadrà dopo, se la battaglia sembra uscire dalle pagine per materializzarsi davanti ai nostri occhi.
Arrivati alla fine si è soddisfatti per aver trascorso piacevolmente un po’ di tempo, senza dover spremere le meningi, e altresì contenti di sapere che la ricerca del Graal non è terminata e che proseguirà con un altro libro.
Buonanotte, signor Tom - Michelle Magorian
Ignoravo l’esistenza di questo romanzo fino a quando, facendo alcune ricerche in Internet, ne sono venuto a conoscenza ed è bastato leggere due righe di presentazione per destare in me curiosità e interesse per un’opera che speravo, non sbagliandomi, di sicuro valore. La vicenda in breve è abbastanza semplice, con molti bambini londinesi che nell’imminenza del secondo conflitto mondiale sono inviati per sicurezza in campagna ospiti di famiglie resesi disponibili ad ospitarli. Fra questi c’è Willie, un bimbo chiuso e timoroso, con il corpo coperto di lividi, che approda alla casa del signor Tom Oakley, un uomo di mezza età che vive da tempo da solo dopo la morte, in ancor giovane età della moglie, a causa di un parto a seguito del quale è deceduto pure il nascituro. Si ha l’’incontro così fra un ragazzino traumatizzato dalla madre, donna instabile di mente, e un vedovo che si è isolato e che poco accetta i contatti con gli abitanti del villaggio. Nonostante questi caratteri poco a poco avviene un trasformazione con Willie che perde le paure e diventa sicuro di sé e Tom che riversa sul bambino tutto l’amore che non ha potuto dare alla moglie e al figlio prematuramente scomparsi, rendendolo una persona ben diversa da quella conosciuta e conferendogli una socievolezza del tutto inaspettata. Nonostante la guerra tutto sembra procedere per il meglio fino a quando la madre scrive chiedendo che il bambino torni da lei e così avviene, con grande dispiacere di Willie e di Tom. Una volta a Londra il bambino non dà più notizie e allora Tom, disperato, va alla sua ricerca e fa un orribile scoperta. Non vado oltre, sarebbe ingiusto togliere al lettore il piacere di leggere le pagine successive di questa vicenda; tuttavia, mi preme rassicurare che il finale non è tragico, una gioia per chi si appassiona a due protagonisti veramente indovinati, al piccolo Willie che piano piano esce dai suoi incubi e al signor Tom, un burbero dal cuore d’oro.
Il romanzo è scritto con delicatezza, con analisi psicologiche assai profonde, ma non pedanti, accompagnate da descrizioni assai riuscite dell’ambiente e con tanti altri attori, ognuno con la personalità ben definita e perfettamente integrati nella trama.
Personalmente ho divorato le pagine, a volte trepidante, altre commosso, e comunque sempre avvinto da una narrazione che procede lineare senza mai incepparsi, e giunto alla fine ho compreso perché questo libro da una quarantina di anni è di successo per adulti e ragazzi, e come possa esserlo a maggior ragione oggi. In un’epoca quale l’attuale in cui si è dimenticato il significato del termine umanità, inteso come sentimento di solidarietà e di comprensione per gli altri esseri, ritrovare il valore dei sentimenti autentici è motivo di gioia e di speranza.
Se l'acqua ride - Paolo Malaguti
Se l’acqua ride è un romanzo di formazione che segue l’evoluzione di un personaggio di una simpatia che ha dell’incredibile, oltre a narrarci di un’epoca non da tanto trascorsa, ma che sembra sbocciare sotto gli occhi di chi legge. Indubbiamente Gambeto, il protagonista, membro di una famiglia di barcaroli, è descritto con una grazia e una sagacia invidiabile; simpatico per le ingenuità proprie dell’età, esilarante nelle sue scoperte sul sesso, è una di quelle figure capaci da sole di dare corpo e nerbo a uno scritto. Già agli inizi ci fa ricordare i nostri anni di scuola (in questo caso le medie inferiori) quando al risveglio la mattina si desidererebbe tanto restare a letto e invece si è costretti a vestirsi e ad andare al proprio dovere di studente, in quella classe dove impera il professore Oio, altro personaggio azzeccato. In verità tutti gli interpreti di questa storia sono indovinati, dal padre che avverte l’incertezza del lavoro di barcarolo alla madre, una donna semplice e timorata di Dio, al fratellino Luciano, un po’ in ombra, ma è giusto che sia così perché più giovane. Eccezionale è poi il nonno Caronte, che da una vita conduce il suo burcio, cioè il barcone, che va a vela e non ha il motore e che quando non c’è vento ha necessità per muoversi, se non a favore di corrente, del cavalante che con il suo quadrupede traina l’imbarcazione, tutte professioni che all’epoca in cui è ambientato il romanzo stanno già scomparendo.
Eppure Gambeto che al termine della scuola sarà anche lui un barcarolo è orgoglioso di quel lavoro, perché stare insieme al nonno è un’esperienza esaltante. Quando seguiamo la navigazione nei fiumi e nei canali seguiamo anche lo sviluppo del ragazzo, la sua crescita, la sua maturazione, il suo risveglio della sessualità, i primi innamoramenti con le gioie, le emozioni, ma anche le trepidazioni che provocano.
Gambeto si innamora a prima vista, come è tipico di quell’età, e ovviamente non mancano le delusioni, tutte esperienza come gli fa capire il nonno.
Inoltre per il ragazzo ogni ansa di fiume, ogni paesino, ogni argine sono una scoperta, è un aprire gli occhi su un mondo che prima non conosceva.
Così, mentre la Teresina, che è il nome del vecchio burcio, scivola sull’acqua il ragazzo matura e senza accorgersi poco a poco diventa uomo.
Grazie a uno stille snello, ma non certamente povero, a una capacità descrittiva a tutta prova, Malaguti ha realizzato un’opera che ha il tocco della grazia, capace di avvincere dalla prima all’ultima pagina, di far talvolta ridere ed altre invece moderatamente commuovere, in un equilibrio perfetto fra realtà e fantasia in cui i sogni di un ragazzo che cresce si evolvono naturalmente.
E’ un percorso, quello di Gambeto, che in altre circostanze e in altri modi abbiamo fatto tutti e questo ritrovare in fondo un po’ di noi è uno dei motivi di pregio di un’opera che a mio parere è un autentico gioiello.
L'arciere del re - di Bernard Cornwell
Bernard Cornwell è un narratore britannico, noto per le serie di romanzi storici che ha scritto. Della Storia dei re sassoni ho già letto L’ultimo re e Il cavaliere e il suo re, entrambi molto piacevoli e avvincenti, in grado di far trascorrere piacevolmente un po’ di tempo e caratterizzati dal fatto che l’aspetto creativo è limitato all’indispensabile, presentando invece in modo convincente eventi accaduti realmente, con i protagonisti quasi tutti effettivamente esistiti. La serie è un po’ lunga, articolandosi su tredici romanzi, ed è per questo che ho deciso di passare ad altro che fosse più breve, anche per verificare se cambiando l’argomento avrei trovato lo stesso interesse. L’arciere del re è il primo dei quattro romanzi che compongono la serie di Alla ricerca del Santo Graal, serie che si svolge in un’epoca posteriore (corre il XIV secolo, anziché l’XI) e dico subito che ho ritrovato i pregi di questo autore, capace sempre di avvincere dalla prima all’ultima pagina, con una trama scorrevole, in cui i colpi di scena sono quasi la norma, così che il lettore di certo non finisce per annoiarsi. In verità un difetto che ho riscontrato e che anche in questo romanzo è presente è di non provvedere a una attenta e profonda analisi psicologica dei protagonisti, preferendo invece rimanere un po’ in superficie, anche per privilegiare l’azione. E a proposito di questa nell’Arciere del re troviamo di tutto, dalla conquista sanguinosa della città di Caen, con l’immancabile seguito di saccheggi e di stupri, alla battaglia di Crécy descritta magistralmente, in una serie di pagine con la narrazione che diventa progressivamente incalzante e che quasi rende partecipi dell’evento, con scene che si potrebbero definire apocalittiche, fra cavalli e uomini morenti, con il sangue che poco a poco inzuppa la collina, insomma una vera e propria mattanza in cui come noto risultarono sconfitti i francesi di Filippo VI, vittime soprattutto degli arcieri inglesi di Edoardo III. Queste ultime pagine, che sembrano macchiarsi di rosso tanto è il sangue che scorre, da sole meritano la lettura di un libro di questo autore che ancora una volta ho apprezzato. Comunque, giusto che si sappia, in questa “prima puntata” si accenna solo al Graal, visto che il protagonista principale, l’arciere Thomas, è impegnato a rintracciare una preziosa reliquia, la lancia con cui San Giorgio trafisse il drago, e sottratta alla chiesa inglese di Hookton. Non vado oltre, perché correrei il rischio di svelare troppo e comunque sono più che convinto che chi ama le storie di cappa e spada qui avrà pane per i suoi denti.
Un cavaliere e il suo re - romanzo di Bernard Cornwell
Se L’ultimo re, primo romanzo della serie, si concludeva con la battaglia che vedeva sconfitti i danesi, con l’uccisione del loro capo, il feroce Ubba, il secondo episodio si apre con la definitiva decisione dell’intrepido Uhtred di lasciare definitivamente i danesi e di mettere la sua spada al servizio del pio re sassone Alfredo. Da questa decisione, prima avventata, poi frutto di un progressivo e sempre più radicato convincimento, si dipana tutta una serie di avventure di carattere bellico culminanti in una battaglia vittoriosa di re Alfredo sugli invasori danesi, esito a cui ha contribuito in modo determinante con la sua tattica e con la sua abilità di uomo d’arme proprio Uhtred, consapevole ormai che se vuole riprendere allo zio usurpatore il possesso di Bebbanburg deve per forza restare uno delle sua gente, e non certo un nemico della stessa, quale era quando stava con i danesi, fra i quali tuttavia resta ancora qualche suo amico.
E’ innegabile che le vicende di questo personaggio di invenzione si basano tuttavia su fatti storici effettivamente avvenuti e che molti dei protagonisti sono realmente esistiti; tale circostanza offre spessore alla narrazione e permette di comprendere il lungo percorso attraverso il quale c’è stata l’unificazione di territorio e di popolazioni nell’Inghilterra.
L’autore ha indubbiamente uno stile snello e accattivante, capace di rendere in modo apprezzabile le atmosfere di un’epoca particolare, riuscendo anche a ricreare visivamente il teatro in cui si svolgono gli eventi, un po’ meno incisivo forse quando si tratta descrivere lo scontro fra due eserciti, in cui traspare il desiderio di rendere partecipe il lettore, tuttavia senza riuscirci completamente in più di una occasione. In ogni caso la narrazione riesce ampiamente ad avvincere e induce chi legge a rincorrere la trama, desideroso di scoprire gli eventi successivi, soprattutto quando si tratta dell’esito di una battaglia.
Matteotti e Mussolini - Mimmo Franzinelli
Matteotti e Mussolini sono stati due emblemi di una concezione diversa del potere, il primo convinto che il potere risieda nella volontà popolare espressa liberamente e nella democrazia, il secondo avviato a spron battuto verso logiche di dittatura, contrario a ogni confronto di opinioni e di idee diverse.
La differenza di vedute risiede evidentemente nel concetto innato in Matteotti che solo con un contrasto politico paritario il paese Italia potesse vivere le difficili fasi del dopoguerra; per Mussolini non era invece questione di dare un’impronta allo stato affinché l’Italia riuscisse ad avere prospettive economiche e sociali, ma nel suo ego smisurato non poteva che concepire l’identificazione fra la sua persona e l’intera nazione. Si trattava di posizioni sicuramente inconciliabili e in un’aula parlamentare che vedeva primeggiare il movimento fascista senza lasciare spazi all’opposizione Matteotti rappresentava l’unica voce, forte, di dissenso. A fronte di un programma che vedeva solo l’ascesa al potere assoluto di Mussolini, Matteotti contrapponeva un deciso progetto riformista ed era anche l’unica effettiva voce di una politica di opposizione, capace come un pugile di ribattere gli assalti degli avversari. Per il futuro duce divenne in breve una spina nel fianco, che tendeva a condizionarlo sempre di più e che pertanto doveva essere messa a tacere. Forse non intendeva proprio sopprimerlo , ma questo non potremo mai saperlo, forse voleva che le sue minacce fossero più concrete di un avvertimento, sta di fatto però che Matteotti finì con il soccombere non tanto politicamente, ma fisicamente.
Franzinelli nel suo bel saggio tende a togliere quell’alone di mito imputabile soprattutto alla fine violenta del politico polesano, restituendo invece la figura di un uomo di ampi meriti non strettamente legati alla sua opposizione al fascismo, che pure è già molto, ma alla sua capacità di avere una visione dell’umanità che si potrebbe definire molto avveniristica, un uomo che intendeva dare una veste di dignità ai lavoratori senza distinzioni geografiche, insomma un’idea di universalità.
Il libro parla dei rapporti fra Mussolini e Matteotti fin da quando il primo era un membro del partito socialista, il che lascia intendere che entrambi si conoscessero assai bene; proprio tale circostanza giustifica la preoccupazione del secondo per una vendetta del primo dopo il suo discorso alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1924 con cui contestava i risultati elettorali del 6 aprile guastando così la festa del primo ormai convinto di vedere trionfare il fascismo. Assai probabilmente Mussolini la prese come la massima delle offese, ragion per cui Matteotti che, nonostante fosse solo, combatteva strenuamente, doveva essere messo a tacere, così che passarono pochi giorni e il 10 giugno scattò la vendetta.
Franzinelli va oltre la morte di Matteotti, parla delle indagini, di tutte le fasi successive a un delitto di cui ancor oggi si prova l’orrore, con una completezza di grande valore, non disgiunta da un ‘esposizione che privilegia la concretezza alla prolissità.
Da leggere, quindi.
Fumana - Paolo Malaguti
Fumana è come viene chiamata la nebbia nelle zone del Po prossimo alla sua foce. E lì certamente, soprattutto in autunno, anche per l'abbondanza d'acqua spesso stagnante, la nebbia non manca mai, ma non è questo fenomeno atmosferico il protagonista del romanzo, è solo un aspetto della natura che smorza i colori, attenua i rumori, rende difficile vedere all'intorno quando si cammina..
Fumana infatti è il nome di una femmina che, partorita con difficoltà, rimane subito orfana, perché la mamma muore e il padre fugge, non si sa dove, ma senza più ritornare. Le è rimasto un unico parente, il nonno, chiamato Petrolio, e provvede lui ad allevarla, benché inesperto; l'uomo conduce una vita povera, ma libera, andando a pescare nei numerosi canali in cui si divide il grande fiume prima di affondare nell'Adriatico e, per non lasciare sola la bimba, a cui verrà dato il nome di Fumana in quanto attratta irresistibilmente dalla nebbia, la porta con sé sul suo sandolo. Lei cresce così, pescando con la fiocina e conoscendo quel mondo così selvaggio che la circonda. Vivere prendendo pesci sembrerebbe il suo destino, ma non è così, perché lei è una predestinata, una strigossa e lì al paese, Voltascirocco, ce n'è già un'altra, la Lena, che ha votato la sua vita a curare con segni e con erbe gli altri, senza pretendere di essere pagata, accettando al più qualche omaggio in natura. E Lena insegnerà il mestiere a Fumana, vero e proprio punto di svolta del romanzo che pagina dopo pagina si fa sempre più interessante. E' così che Malaguti ci racconta la vita di una donna libera e altruista dalla sua nascita nel 1882 fino alla sua fine, tanti anni con ancor più tanti eventi, come nascite, morti, amori, guerre, sviluppo industriale, piene del Po, perdita delle tradizioni. Per lo più, almeno per quanto concerne i grandi fatti, sono cose che conosciamo già, ma che viste dagli occhi di Fumana assumono evidenze diverse, raccontano di una storia vista dal basso, dagli umili in un piccolo contesto quale è Voltascirocco, perché al di là dell'attività di guaritrice della strigossa c'è un cuore che palpita, c'è un desiderio di amore immenso di una donna che è fiera di essere libera, che trova se stessa nella natura che la circonda, nelle nebbie da cui sembrano giungere voci strane, voci di chi non c'è più. Forse è un sogno, ma Fumana non è pazza, Fumana riesce ad arrivare a una trascendenza che a pochi è riservata.
Ci sono pagine di grande bellezza in cui sembra di udire il sospiro dell'acqua, i richiami degli uccelli, il gracidio delle rane, il respiro del vento, ma soprattutto c'è lei, Fumana, un personaggio che affascina, creato abilmente dall'autore.
Il romanzo è veramente bello, per non dire stupendo, e probabilmente il migliore di quelli che ho letto scritti da Malaguti.
La montagna nel lago - Jacopo De Michelis
Non so se Montisola sia l'isola lacustre più grande d'Europa, ma quello di cui sono certo è che è un luogo molto bello, che mi è piaciuto immediatamente ancora prima di visitarlo, transitando in auto sulla strada litoranea che attraversa Sulzano, il paese sulla terraferma da cui parte il traghetto che ho poi preso per approdarvi. La si vede bene da lontano, nella parte superiore del lago d'Iseo, più imponente che ridente, un sasso scagliato da un ciclope, o meglio ancora una montagna che emerge dalle acque del lago. E La montagna nel lago è il titolo del bel romanzo giallo che ha scritto Jacopo De Michelis, 576 pagine di un ritmo quasi sempre serrato, che avvincono il lettore dalla prima all'ultima. Se la trama è più che masi convincente, non si possono che apprezzare le descrizioni del paesaggio e dell'atmosfera di questo posto, che sembra completamente isolato dal mondo. La vicenda inizia con il ritrovamento di un uomo non più giovane che era scomparso, ferito gravemente per le torture subite, ancora in vita, ma che morirà nel giro di pochi minuti, senza fornire indicazioni su chi gli ha fatto così del male. La vittima è Emilio Ercoli, il riccone del paese che si è fatto una fortuna non si sa come, più temuto che stimato, ma che sembrerebbe non avere nemici, tranne Nevio Rota, un pescatore del luogo e ovviamente i sospetti si addensano su di lui. E' per difenderlo che ritorna il figlio Pietro da Milano dove è rimasto dodici anni cercando di trovare il successo come giornalista di un grande quotidiano e invece conducendo una vita stentata e di ben poche soddisfazioni, poiché l'unico lavoro che ha trovato è stato quello di scrivere come freelance articoli per un periodico di cronaca nera. Poi la trama, ben strutturata, si sviluppa secondo un criterio logico senz'altro apprezzabile, alla vana ricerca di un altro sospetto onde sviare le indagini su Nevio Rota. E' una figura interessante Pietro, in un certo senso un fallito, pieno di debiti e che sniffa anche coca, un uomo deluso, ma che tuttavia troverà nell'indagine che svolge congiuntamente con un amico agente della polizia municipale l'occasione per il suo riscatto. Mano a mano che si procede emergono personaggi sospetti che si rivelano poi piste sbagliate, ma soprattutto si innesta un aspetto storico legato alla seconda guerra mondiale quando a Montisola, dopo l'8 settembre 1943, era giunto Junio Valerio Borghese, il famigerato comandante della Decima Mas, eleggendo la località a suo feudo personale.
Alla fine i colpi di scena si susseguono e si arriva alla verità, talmente logica che ci si chiede come mai non la si sia vista prima, ma anche quando si scoprirà l'autore del delitto c'è spazio per un'ulteriore sorpresa, che ovviamente non svelo, ma che posso definire un colpo di genio dell'autore.
Non aggiungo altro, se non la raccomandazione di leggere questo romanzo, perché merita ampiamente.