RENZO MONTAGNOLI

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L'ananas no - Cristiano Cavina

Dopo Fratelli nella notte, onde anche addivenire a un giudizio più compiuto di questo narratore, ho preferito cimentarmi con la sua ultima pubblicazione, L’ananas no, un giallo romagnolo che ne è anche il sottotitolo. Cercavo conferme e purtroppo non ne ho trovate, perché in questo romanzo, che si svolge soprattutto in una pizzeria, c’è tanta carne al fuoco, oltre all’intenzione di permearlo di uno spirito più ironico che comico. I tanti personaggi e anche la difficoltà di mantenere un atteggiamento lieve, ma non vuoto, secondo me dà luogo a una discontinuità che non può che nuocere, soprattutto quando la vicenda ha colori che tendono al giallo.
E qui entrano in gioco le doti naturali e le capacità acquisite nel tempo con studi ed esperienze, comunque appena accennate tanto che ne risulta un lavoro che parte con le migliori intenzioni, che poi vengono però puntualmente disattese. Fra l’altro lo stile dell’autore non mi piace, troppo ridondante, a volte tendente al cazzeggio e in ogni caso inferiore a quello che si aspetterebbe da un narratore che dovrebbe essere di lungo corso.

Romagna mia! - Cristiano Cavina

Da un romagnolo mi sarei aspettato uno scritto sulla Romagna descritta come un grande paese, con personaggi indimenticabili, il tutto accompagnato da una vena più o meno marcata di ironia, e in effetti il tentativo c’è stato, nel senso che Cavina deve essersi ricordato dell’Amarcord di Fellini. Il risultato però è molto diverso, il che dimostra che gli svolgimenti dello stesso tema, per quanto ci sia il tentativo di scopiazzare quello del più bravo, non sono mai in grado di dare i risultati sperati. Perchè? La differenza sta nel manico, cioè nelle doti innate, in base alle quali c’è il narratore di razza e c’è chi scrive, chi si arrabatta a mettere giù di due righe , assai più da artigiano che da artista.
E cosi Romagna mia! anziché appassionarmi e divertirmi è stata l’occasione per annoiarmi, tanto sono limitate, e peraltro mal sviluppate, le idee.
Per concludere, non intendo tediare ulteriormente chi leggerà questa mia opinione, per conoscere Cristiano Cavina ho scelto tre sue opere e solo una, Fratelli nella notte, mi è sembrata discreta, a differenza delle altre due, troppo modeste.

Piu' alto del mare - Francesca Melandri

Più alto del mare è il primo libro che leggo di questa narratrice e sceneggiatrice romana e in tutta sincerità l´ho scelto perché mi risulta sia stato finalista al Premio Campiello e abbia vinto il Premio Rapallo Carige. Non è che mi lasci influenzare dai risultati nei concorsi letterari, ma in un periodo in cui trovo opere di autori italiani contemporanei sempre meno valide ho voluto accertarmi se gli onori tributati, almeno a mio giudizio, fossero meritati.
Il romanzo parla dell´incontro casuale di due persone, un uomo e una donna, in visita al carcere di massima sicurezza sito in un´isola che, dalle descrizioni, sembrerebbe essere l´Asinara; lui va a trovare il figlio, terrorista e pluriomicida, lei invece va dal marito, pure lui pluriomicida. Come al solito non intendo rivelare la trama, molto interessante, perché preferisco soffermarmi sulle caratteristiche del lavoro dove si parla dei famosi anni di piombo che tanto hanno sconvolto l´Italia mietendo molte vittime innocenti. La Melandri non giudica, né si sbilancia al riguardo, in quanto il fenomeno eversivo costituisce solo lo sfondo in cui si svolge la vicenda; analizza invece i comportamenti delle vittime indirette, in questo caso la donna, in quanto moglie dell´omicida e vittima lei stessa delle sue violenze, e l´uomo, il padre del sanguinario terrorista. La condanna all´ergastolo dei loro congiunti vale anche per loro, perché la loro vita ne è stata stravolta; i loro silenzi, i loro sguardi vuoti di esseri senza speranza sono un denominatore comune, vegetano ormai più che vivere, in giornate sempre uguali e sempre cupe, ma un evento imprevisto, una burrasca che impedisce al battello di trasportarli sulla terra ferma sarà un evento tanto imponderabile quanto salvifico. Costretti a pernottare in un alloggio di fortuna (non ci sono alberghi), con il conforto anche di una guardia carceraria che ha un segreto da celare, in quelle poche ore e in quelle del ritorno prima alla terra ferma e poi al continente troveranno un motivo per continuare a vivere, si svilupperà una compartecipazione, una reciproca compassione che senza essere amore è però affetto. Non anticipo la fine del romanzo, tanto più che non è come ci si può attendere e in fondo è quella giusta, più realistica, più in sintonia con gli eventi del passato che hanno lasciato un segno indelebile.
I due protagonisti Luisa e Paolo sono di quelli che non si dimenticano facilmente, come anche Nitti, l´agente di custodia, e sua moglie Maria Caterina, la dolce maestrina che attende la risposta alle domande che ha dentro.
Con una struttura solida, ben impostata, con un ritmo blando più che mai consono alla vicenda, si apprezzano anche le capacità descrittive del paesaggio, del mare, del cielo, nonché l´atmosfera, sospesa, come fuori dal tempo, quel tempo che non ha significato per chi non ha speranze. Lo stile è quanto di meglio si possa trovare per un romanzo la cui lettura mi sento di consigliare, anche perché giunti alla fine si ha netta la sensazione che non poco sia rimasto dentro di noi e perché verso i protagonisti si prova un sentimento di autentica compassione.

La prigione - Georges Simenon

In La prigione abbiamo un protagonista assoluto, Alain Poitaud, direttore trentaduenne di un periodico a grande tiratura; l´uomo avrà la vita sconvolta da un evento tremendo, cioè l´uccisione della cognata a opera di sua moglie, fatto tanto più insolito, considerati i rapporti intercorrenti fra l´assassina e la vittima, cioè si tratta di due sorelle.
Quest´uomo, con una moralità solo apparente, che va a letto con tutte e che aveva intrecciato una lunga relazione con la cognata, terminata alcuni mesi prima del misfatto, cercherà di capire, indagherà sul movente finendo inevitabilmente per cercare in se stesso.
Ne esce un quadro sconfortante, non solo individuale, ma anche di una borghesia fatta di gesti ripetuti in cui l´apparenza è la sostanza, dove l´immoralità è consuetudine diffusa, un quadro deprimente in cui si bruciano esistenze senza concrete e durature soddisfazioni.
La prigione è un romanzo non proprio lineare, anzi tortuoso, come se Simenon, nella preoccupazione di far conoscere al protagonista se stesso abbia preferito un po´ tralasciare le esigenze dei lettori, che a volte si trovano perplessi di fronte all´evoluzione della trama. Tuttavia la mano sicura e l´esperienza dell´autore evitano che la vicenda deragli, anzi, grazie a una trovata geniale, verrà riservato un finale inatteso che non potrà che soddisfare il lettore facendo dimenticare alcune parti della struttura non proprio realizzate come si deve.
Il romanzo, pur essendo intrigante, non è tuttavia a livello dei migliori di Simenon; mancano le atmosfere di quelli d´anteguerra, l´analisi psicologica, se pur sempre presente, è meno attenta e si possono notare certe forzature nella descrizione dei personaggi che in passato apparivano invece più naturali.
Resta comunque senz’altro leggibile.

L'ora di tutti - Maria Corti

Nell´agosto del 1480 i Turchi assediarono Otranto, i cui cittadini si difesero con la forza della disperazione, ma alla fine dovettero cedere di fronte a forze enormemente superiori. Agli uomini superstiti, all´incirca ottocento, fu proposto di convertirsi all´Islam evitando così di essere uccisi, ma rifiutarono e furono decapitati tutti il 14 dello stesso mese, diventando così Martiri della Chiesa.
Maria Corti, filologa e narratrice, ha scritto di questo fatto un romanzo storico, caratterizzato dal racconto di cinque personaggi che forniscono la loro esperienza della vicenda. I primi quattro ne parlano da morti, scrivono quasi il loro epitaffio in una specie di Spoon River del XV secolo; l´ultimo invece è un cavaliere che narra della grande festa che si ebbe allorché gli spagnoli riuscirono a riconquistare la città, una sorta di lieto fine dopo tanto dolore.
Il primo personaggio è un pescatore, Colangelo, che trova la morte combattendo sulle mura, il secondo è il capitano Zurlo, governatore militare della città, che perirà nel tentativo di difenderla, il terzo è la bella Idrusa, una vedova otrantina, che si suiciderà per evitare di essere violata da un turco, il quarto è Nachiria il pescatore che sarà uno dei decapitati e del quinto, Aloise De Marco, si è già detto.
Le cinque narrazioni non sono indipendenti, ma si collegano come quelle pale d´altare dove si raffigurano la Natività, o la passione di Nostro Signore, così che il lettore ha netta la sensazione che si tratti, come in effetti sono, di capitoli dello stesso romanzo. Questa continuità, per quanto i protagonisti di volta in volta siano diversi, rappresenta indubbiamente uno dei motivi di interesse di un´opera che, al di là della vicenda di per sé attraente, è caratterizzata da altri pregi, quali lo stile semplice, ma efficace, mai ridondante e tanto meno permeato di retorica, e le descrizioni dei paesaggi che sono quanto di meglio mi è capitato di leggere.
Maria Corti, inoltre, è capace di scendere in profondità nell´analisi psicologica dei personaggi e di rappresentarli in quello che sono veramente, quindi ben oltre le apparenze, dando a ciascuno di loro quella che doveva essere la voce di tutti, perché prima ancora del sacrificio per la religione c´è il senso dell´onore, la dignità di un popolo che combatte e muore per la propria libertà, e l´ora di tutti è quella che, prima o poi nella vita, capita a tutti, quella in cui ognuno di noi riesce a dimostrare, prima a se stesso e poi agli altri, quel che vale, che sia poco o che sia tanto.
Il libro è sicuramente molto bello e l´unico appunto che mi sento di fare, ma che non inficia il mio giudizio ampiamente positivo, è che mai mi sarei aspettato da una studiosa come la Corti che parlasse anche di pomodori e zucchine, ortaggi giunti in Europa dopo la scoperta dell´America, cioè dopo il 1492, mentre l´assedio e il massacri di Otranto sono del 1480.
In ogni caso L´ora di tutti è sicuramente meritevole di lettura.

All'arme! All'arme! I priori fanno carne! - Alessandro Barbero

Fin dall´inizio a Barbero preme precisare che c´è una differenza di sostanza fra rivolta e rivoluzione, poiché la prima è il tentativo di sovvertire l´ordine costituito, mentre la seconda è il risultato positivo dell´azione di rimozione con la forza dell´ordine precedente. Inoltre, tiene a evidenziare il perché le rivolte nel Medioevo si siano concentrate negli ultimi anni del XIV secolo e per far questo discute ampiamente di questi eventi, vale a dire nel 1359 la Jacquerie in Francia, nel 1378 i Ciompi a Firenze, nel 1381 l´insurrezione inglese e nel 1386 la rivolta dei Tuchini nel Canavese.
Il tema trattato è di indubbio interesse perché cerca di spiegare i motivi per i quali dei moti popolari si siano conclusi in un insuccesso, onde così comprendere quelli che invece hanno consentito un sovvertimento dell´ordine costituito con effetti di lunghissimo periodo, quali la rivoluzione inglese del seicento, quella americana e francese del settecento e, se pur con una durata di molto inferiore, quella russa del 1917.
Per far questo e per cercare di rendere più comprensibile il suo elaborato Barbero si avvale della non indifferente sua capacità affabulatoria, ma, a mio parere, in questo caso esagera, infarcendo le pagine di un numero ridondante di notizie tale che è facile che chi legge perda il filo del discorso.
Non contesto le indubbie capacità dello storico piemontese, ma in tutta franchezza ho avuto l´impressione che fra tanti eventi e particolarità degli stessi abbia finito pure lui per perdersi.
Ciò non toglie che l´opera abbia motivo di interesse, ma resta il fatto che non ci troviamo il fronte all´Alessandro Barbero che ben conosciamo, la cui chiarezza di esposizione prima non era mai venuta meno.

Camon - Filippo Cerantola

Non è certo facile scrivere di Ferdinando Camon, anzi sono dell’opinione che sia particolarmente difficile, perché non è un autore monotematico, ma un attento osservatore della società e del suo divenire che analizza in modo accurato, ritraendo quadri letterari che sono sostanzialmente la realtà. Ci ha provato Filippo Cerantola con questo suo Camon, un lavoro che mi è sembrato molto ben realizzato, volto a proporre al lettore un’immagine completa di uno dei maggiori autori della nostra letteratura e credo che anche lo stesso Camon sia d’accordo sul buon risultato dell’opera.
In 288 pagine c’è tutto, proprio tutto, esposto in modo organico e razionale, la sua vita, i suoi rapporti con gli altri, il suo pensiero politico, l’analisi della sua produzione letteraria distinta in Ciclo degli ultimi, Ciclo del terrore e Ciclo della famiglia, i numerosi articoli pubblicati su diversi giornali.
Proprio per quanto concerne i romanzi e anche le poesie ho notato, con piacere, che il giudizio, sia pur necessariamente abbastanza sintetico, è tuttavia esaustivo, a tutto vantaggio ovviamente di chi legge che così può avere una visione completa di tutte le sue opere, tale da comprendere la grandezza del loro autore, ma anche da invogliarlo a procedere alla loro lettura.
Per quanto i libri dei singoli cicli siano rappresentativi delle realtà di una società in evoluzione (basti pensare a Occidente, con la tematica del terrorismo che ha insanguinato a lungo l’Italia) e dunque siano tutti estremamente interessanti, compreso quello della famiglia, così cambiata negli anni, credo che Ferdinando Camon sia più noto per i suoi romanzi del Ciclo degli ultimi (Il Quinto Stato, La vita eterna, Un altare per la madre, Mai visti sole e luna, La mia stirpe). Lì si parla di una civiltà millenaria scomparsa in pochi anni, un mondo che era tutto a sé, fatto di miseria, di superstizioni, ma anche di reciproco soccorso, laddove la civiltà contadina per uno nato oggi sarebbe del tutto incomprensibile. Il tema è particolarmente sentito da Camon perché lui era parte di questa civiltà, figlio di contadini viveva in campagna, e quindi ne ha conosciuto i riti, è stato testimone della sua arretratezza, ha provato sulla sua pelle la sofferenza di essere contadino. Ed è stato proprio Il Quinto Stato il libro che lo ha fatto conoscere ai lettori, un volume che ha beneficiato della prefazione di Pier Paolo Pasolini, suo grande estimatore. Sono poche righe, due paginette sul cui contenuto tuttavia lo scrittore padovano dissente; all’epoca non si oppose, vista anche la notorietà del prefatore, ma in seguito, ripensandoci, si accorse che l’immagine che Pasolini aveva ritratto era di una civiltà sì morta, ma a cui era auspicabile tendere di nuovo, considerandola una sorta di Arcadia. Invece, il mondo contadino si estrinsecava in una situazione statica, in una vita di autentica sofferenza per una miseria atavica e che pareva irrimediabile; pertanto, secondo Camon, era più che giusto che finisse, demolito dall’industrializzazione e dal consumismo, grazie ai quali tanti miserabili potevano accedere a un po’ di benessere e a un’esistenza più dignitosa, ma come sempre capita laddove prevale il denaro si perdono i sentimenti, gli unici pregi fra tanti difetti. Al riguardo mi sovvengo di una frase che Ferdinando Camon inserì in una risposta all’intervista che gli feci l’8 maggio 2009 e che ha una valenza universale, essendo una gran verità: ”Il progresso ha un prezzo. È molto quel che guadagniamo, ma è molto quel che perdiamo. Io racconto quel che perdiamo. Sono un narratore parziale e limitato, lo so e lo dichiaro. Non sono un narratore del progresso, ma del prezzo del progresso.”.  
Per quanto si tratti di saggistica, cioè di un lavoro di lenta assimilazione, mi sento di dire che Cerantola meglio non poteva fare, grazie anche allo stile snello e alla capacità di focalizzare rapidamente le tematiche, riuscendo a dire molto senza dilungarsi eccessivamente. Peraltro l’editore Apogeo ha corredato il libro di due scritti, uno del poeta e scrittore Gian Mario Villalta e l’altro del docente universitario e critico letterario Massimo Onofri, contributi importanti e autorevoli che lo impreziosiscono ulteriormente.
Non dico altro, meglio di me potrà dire la lettura di questo riuscito saggio.

Monaco - Robert Harris

Monaco parla di un´illusione, l´illusione di evitare la seconda guerra mondiale, sacrificando la Cecoslovacchia, e quindi non una pace con onore - come ebbe a dire il primo ministro inglese Neville Chamberlain, fautore di una politica estera nei confronti della Germania nazista definita di appeasement, cioè di mantenimento della pace a prezzo di concessioni - bensì come a contrasto disse Winston Churchill " potevano scegliere tra il disonore e la guerra, hanno scelto il disonore ed avranno la guerra ". Era il 30 settembre del 1938, le popolazioni d´Europa, tedeschi compresi, sperò, ma non trascorse nemmeno un anno e l´1 settembre 1939 le truppe naziste invasero la Polonia, dando inizio al secondo conflitto mondiale.
Robert Harris imbastisce una narrazione indubbiamente di fantasia, ma ben ancorata a ciò che accadde nella conferenza di Monaco, creando due personaggi, Hug Legat, promettente funzionario del servizio diplomatico britannico, segretario particolare del primo ministro Neville Chamberlain, e Paul von Hartmann aristocratico membro dello staff del Ministero degli Esteri tedesco, iscritto al partito nazista, ma in segreto facente parte di una cospirazione contro Hitler. I due si conoscono, anzi sono amici, pur non frequentandosi da sei anni, perché hanno condiviso un periodo di studio a Oxford. Il secondo dei due conta sull´amicizia per far fallire le trattative, mettendo in difficoltà il dittatore nazista e consentendo così di dare vita a un moto insurrezionale. La trama è veramente ben congegnata e, senza mancare di aderenza alla realtà, finisce con lo sviluppare una spy story diplomatica di grande effetto, appassionante e per nulla greve. La storia ci dice che il piano di von Hartmann fallì, e non certo per mancanza di collaborazione da parte di Legat; infatti Chamberlain era partito per Monaco proponendosi di arrivare a ogni costo a un accordo per scongiurare una guerra e quel a ogni costo implicò il sacrificio della Cecoslovacchia, ai cui membri di governo non fu consentito di partecipare alla conferenza. Il risultato di Chamberlain fu, come verificato a posteriori, del tutto effimero e anche squallido, decidendo del destino di altri senza che questi fossero o meno consenzienti, e proprio per questo è giustificata la famosa frase di Winston Churchill. A posteriori si potrebbe dire che gli attori principali, e cioé Hitler, Chamberlain, Daladier e Mussolini furono protagonisti di una commedia grottesca, tutti consapevoli dell´inutilità di quell´accordo.
La capacità di Harris di ricreare l´atmosfera, l´abilità con cui dipinge una trama inconsueta ed intricata sono veramente ragguardevoli, tali da soddisfare ampiamente il lettore, consapevole dell´innesto di fantasia in una vicenda che avvenne proprio così.
A titolo di notizia dal libro è stato tratto un film di buon successo: Monaco. Sull´orlo della guerra, uscito nelle sale cinematografiche nel 2021 e che vede fra i protagonisti Jeremy Irons nei panni di Neville Chamberlain.
Da leggere il libro e da vedere il film, con pieno merito per entrambi.

La tigre e i gelidi mostri - Maurizio Dianese, Gianfranco Bettin

Premetto che scrivere del periodo che vide il nostro paese preda di omicidi di esponenti politici, di giornalisti, di docenti e di stragi con vittime a priori sconosciute, non è certo facile. Si tratta di parlare dei cosiddetti anni di piombo, che vanno dal grave attentato del 12 dicembre 1969 nel centro di Milano presso la Banca Nazionale dell´Agricoltura all´orrenda strage del 2 agosto 1980 nella stazione centrale di Bologna. La difficoltà sta nel fatto che benché per molti dei gravi fatti si siano trovati e processati gli esecutori a oggi non si conosce ancora il nome dei mandanti; si mormora che per gli omicidi e le stragi di matrice fascista vi siano dietro gli Stati Uniti, d´intesa con i nostri servizi segreti, mentre è più vaga l´attribuzione per i delitti commessi da extra parlamentari di sinistra, in primis le Brigate rosse. Sembrerebbe quindi che l´Italia dell´epoca fosse diventata un terreno di scontri fra opposte fazioni? No, nulla di tutto questo, ogni colore, nero e rosso, ha mantenuto il paese in uno stato di tensione incredibile, e proprio per questo non è così remota l´idea che dietro tutti questi tragici fatti ci sia un solo burattinaio, capace, a seconda delle circostanze, di far muovere uno o l´altro terrorista.
Il libro di Bettin e Dianese, due giornalisti che nelle intenzioni intenderebbero porre fine a tante ipotesi, parlando appunto della strategia della tensione e del ricatto di una certa parte dello Stato allo Stato stesso, invece non riesce a mantenere quello che promette, proprio perché, pur portando a conoscenza circostanze e nomi non così noti afferenti atti delittuosi si ferma a quelli compiuti dagli estremisti di destra, come Ordine nuovo, senza affrontare il problema del terrorismo rosso, che ripeto potrebbe essere collegato, potrebbe avere, con divise diverse, un´unica origine e un unico mandante.
A parte questo difetto, che non è assolutamente da poco, si avverte chiaramente che il libro non è stato scritto da storici di professione; pur non mettendo in dubbio l´impegno profuso e la certezza delle fonti risente di una impostazione poco tecnica e un po´ disorganica.

In pratica finisce con il diventare una fonte di curiosità sui tanti retroscena, perdendo di vista il tema fondamentale che è cercare di dare un nome certo ai mandanti. Comprendo la difficoltà e i pericoli e non ne faccio pertanto una colpa agli autori, ma la pretesa di realizzare un saggio definitivo sulla strategia della tensione mi pare francamente velleitaria.
Comunque il libro, per quelle ulteriori notizie che vi sono riportate, può costituire motivo di interesse per essere letto.

Lepanto - Alessandro Barbero

Nel corso del XVI secolo l'impero ottomano raggiunse la sua massima espansione; al riguardo basti pensare che sotto Solimano il Magnifico la Sublime Porta, nome con cui era più conosciuta all'epoca la potenza turca, si spinse fino alle porte di Vienna, senza riuscire tuttavia a impadronirsene, ma assoggettando l'Ungheria e tutti gli stati slavi. La politica di continua conquista di nuovi territori fu sempre una prerogativa dei sultani che si avvicendavano sul trono a partire dal XIV secolo e così anche il figlio di Solimano, Selim II, succeduto al padre senza essere il primogenito e grazie all'uccisione degli altri fratelli, per quanto considerato un debole e un depravato, intese proseguire negli ampliamenti territoriali e a farne per prima le spese fu Cipro, di proprietà sì dell'impero ottomano, ma affittata ai veneziani. Fu così che, senza un preavviso di sfratto, le truppe turche sbarcarono nell'isola, mettendola a ferro e fuoco ed entrando dopo 45 giorni di assedio a Nicosia. Restava, però, ancora in mani veneziane Famagosta, ma anche questa, nonostante una difesa eroica, cadde e il suo comandante, Marcantonio Bragadin, malgrado che l'atto di resa prevedesse salva la vita per tutti, fu orribilmente scorticato vivo.
Alla notizia dello sbarco degli ottomani a Cipro Venezia non poteva restare inerte, come disinteressati non potevano essere gli stati del Mediterraneo, perché era evidente che la minaccia di essere conquistati si rafforzava ogni giorno di più, così si ideò una spedizione con navi veneziane, del re di Spagna, dello Stato Pontificio al fine di contrastare questo tentativo di impadronirsi del Mediterraneo e con esso dei suoi traffici. Ma fra disaccordi di gestione sull'azione da intraprendere, picche e ripicche non si arrivò a uno scontro con la grande flotta ottomana. Era il 1570 e il naviglio ritornò ai propri porti, tentando, almeno la Serenissima, di arrivare a un accordo di pace con il Sultano. Le intenzioni di questo, tuttavia, come del resto di alcuni alleati, erano ben altre e così, dopo non poche difficili trattative, si arrivò nel 1571 a costituire, sotto l'egida di Papa Pio V, una Lega Santa a cui parteciparono il Granducato di Toscana, il Ducato di Savoia, i Cavalieri di Malta, la Repubblica di Genova, lo stato pontificio, l'impero spagnolo, con i Regni di Napoli e di Sicilia, e la Repubblica di Venezia. Si allestì una poderosa e agguerrita flotta costituita da 204 galee e 6 galeazze, con 28.000 soldati, circa 13.000 marinai e un gran numero di rematori, stimati in 43.000; la potenza di fuoco di questa armata marittima era assai notevole, rappresentata da circa 1.800 cannoni, di eccellente fattura, molti dei quali di grosso calibro. L'impero ottomano poteva opporre 216 galee, 64 galeotte e 64 fuste, un numero quindi superiore, ma lo stato di manutenzione di queste imbarcazioni era spesso inferiore a quello del naviglio avversario che, fra l'altro, era anche più moderno; sulle navi della Sublime Porta erano imbarcati 34.000 soldati, pochi con archibugio, a differenza degli avversari, 13.000 marinai, 41.000 rematori e solo 750 cannoni, soprattutto di piccolo calibro. Al comando alla Lega Santa era Don Giovanni d'Austria, a quello della flotta ottomana Alì Pascià. Lo scontro avvenne il 7 ottobre 1571 nelle acque antistanti la cittadina greca di Lepanto e, dopo alterne vicende e rovesciamenti di fronte, si concluse con una grande vittoria della Lega Santa, che affondò e catturò circa 189 navi nemiche, contro la perdita di soli 17 suoi vascelli; tanti furono gli schiavi catturati e i soldati uccisi e fra questi il comandante in capo Alì Pascià. Se si pensa che con questo grande successo si riuscì a porre freno all'espansionismo turco ci si sbaglia di grosso, poiché continuarono le conquiste in terraferma e anche in mare, per quanto limitate a isole geograficamente greche, come Creta, oppure all'Africa settentrionale, come la Tunisia. Invece fu una battuta d'arresto per la marina turca, da cui non riuscì più a risollevarsi e, soprattutto, il successo della Lega Santa ebbe un valore simbolico più grande di quello bellico, sia perché in tanti anni era la prima grossa sconfitta patita dagli ottomani, sia perché questi rinunciarono per sempre a dominare su tutto il Mediterraneo. Benché la flotta fosse stata ricostruita in un solo anno, i vascelli risultavano inferiori come qualità e armi in dotazione a quelli della Cristianità e se anche serpeggiava un naturale desiderio di riscatto e di rivincita, questo non avvenne, perché gli esiti drammatici di quello scontro avevano incrinato la sicurezza degli ottomani; a ciò aggiungasi che la Lega Santa fu rapidamente sciolta, anche per la morte del Papa che l'aveva così tanto sostenuta, venendo quindi a mancare in ogni caso l'avversario di prestigio per una nuova grande battaglia navale.
Ecco, di questo conflitto, dei prodromi, della battaglia navale vera e propria, e delle sue conseguenze parla in questo libro Alessandro Barbero, con quella sua particolare capacità di avvincere gradualmente il lettore e di renderlo quasi presente ai fatti; non manca la sottile vena ironica che caratterizza lo storico piemontese, vena che alleggerisce il racconto ed è capace anche di sfumare fatti tragici e morti orrende.
Lepanto è uno di quei libri che, benché assai lungo (ma molte pagine sono destinate alle corpose fonti bibliografiche, alle note e all'appendice), riesce a non stancare mai, a continuamente interessare chi, con vero piacere, lo sta leggendo.

La concessione del telefono - Andrea Camilleri

Per quanto associamo subito al nome di Camilleri quello di Montalbano, il personaggio senza dubbio più conosciuto, l'autore siciliano si diletta anche a scrivere romanzi storici o comunque di ambientazione storica.
Fra questi ce n'è uno un po' particolare, realizzato parte in forma epistolare, parte come dialoghi e che ha conosciuto il suo maggior successo nella versione teatrale. Per appassionare il lettore o lo spettatore ci sono tutti gli elementi giusti, amalgamati con la consueta abilità da Camilleri, sì che ne esce un'opera dal difficile, ma esemplare equilibrio e che per certi versi può ricordare la famosa pochade francese. Le coincidenze impossibili, o quasi, l'assurdità della burocrazia sabauda, un gioco a guardie e ladri, condito con un pizzico di tradimento coniugale e ne esce un libro godibilissimo, che di certo non potrà che appagare sia chi è alla ricerca di righe d'evasione, sia chi ama scoprire, sotto gli aspetti esilaranti, una critica dura, spietata di una società su cui incombe greve la rigida morale e il formalismo estremo del casato piemontese.
Non ho visto la commedia, ma sono dell'opinione che, per l'impostazione e la struttura del testo, sul palcoscenico la fertile creatività di Camilleri, particolarmente felice in questo libro, dove i colpi di scena e gli equivoci si rincorrono, sia uscita ancora più dirompente e che quindi la gradevolezza si sia ulteriormente incrementata.
Da una vicenda di corna, che prende avvio con la richiesta di una concessione telefonica, si srotolano una serie di fatti concatenati in un crescendo quasi rossiniano. Si ride, certamente, ma piuttosto amaramente e senza dir oltre aggiungo solo che la visione critica dell'autore è tale che, se pur la vicenda è ambientata alla fine del XIX secolo, certi risvolti, taluni atteggiamenti, le conclusioni presentato una straordinaria attualità, nella scia di una storia che per l'Italia sembra sempre la stessa.

Liberazione - Imogen Kealey

Nancy Wake (Wellington, 30 agosto 1912 – Londra, 7 agosto 2011) è stata un’agente segreto che nel corso della seconda guerra mondiale ha lavorato con la Resistenza francese. Molto abile nel passare indenne i posti di blocco, attiva nell’espatrio di ricercati della Gestapo, a capo di bande partigiane riuscì a compiere diverse imprese eclatanti, costituendo di fatto una spina nel fianco dei nazisti che misero sulla sua testa una taglia di rilevante importo. Divenne così la donna più ricercata di Francia e ciò nonostante riuscì sempre a sfuggire alla cattura; le fu affibbiato il nomignolo di Topo Bianco e come il roditore arrivava ovunque colpendo, per poi ritirarsi indenne. Per queste caratteristiche divenne molto famosa e fu uno dei migliori membri del SOE, lo Special Operations Executive, il Servizio Segreto inglese incaricato di infiltrare agenti nei territori occupati dai nazisti per collaborare con i partigiani.
Imogen Kealey, che è lo pseudonimo della scrittrice Imogen Robertson e dello sceneggiatore Darby Kealey, sono riusciti a scriverne una parziale biografia (quella relativa al periodo della seconda guerra mondiale) particolarmente avvincente. Pur rispettando sostanzialmente la vita di Nancy Wake di quel periodo hanno comunque dato sfogo alla loro creatività elaborando alcuni fatti o azioni che, tranne per l’assalto alla sede della Gestapo a Montluçon e a un famoso ponte ferroviario, sono accadute realmente; di fantasia è anche il suo cacciatore, il maggiore nazista Bohm, personaggio indovinato e sostanzialmente fuori dai consueti stereotipi. A ogni buon conto, i due autori evidenziano al termine del libro questi frutti della loro creatività e di questo deve essere dato loro merito.
La trama è caratterizzata da una continua tensione che non viene mai meno, i protagonisti sono ben delineati, anche se non si scende molto in profondità, le descrizioni dei luoghi sono ben realizzate, insomma il libro è riuscito; senza essere un’opera memorabile, è tuttavia in grado di farci conoscere pagine di storia sulla Resistenza francese e quel che più conta in modo più che piacevole. Personalmente è riuscito ad avvincermi dalla prima all’ultima pagina, pagine che ho letteralmente divorato, tanto che mi permetto di caldeggiarne la lettura.

La fossa dei lupi, o come proseguono I promessi sposi - Ben Pastor

Devo ammettere che ero convinto che Ben Pastor avrebbe continuato a scrivere romanzi storici con protagonista il militare romano Elio Sparziano, l´ultimo dei personaggi da lei creati dopo il celeberrimo ufficiale dell´Abwehr Martin von Bora e la non riuscita coppia di investigatori Kaael Heida e Solomon Meisl. Infatti, visto il successo incontrato con la serie dell´inviato speciale dell´imperatore e considerato anche con l´età non è facile cambiare, tutto mi sarei aspettato tranne che un libro con un nuovo protagonista. Tuttavia, la cosa deve essere stata studiata bene, cercando di fare in modo che l´impatto con i lettori fosse subito positivo, partendo da una storia che più conosciuta di così non può essere e mi riferisco a I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Del resto credo che non a pochi, ultimata la lettura del libro dello scrittore milanese, sia rimasta la curiosità di sapere come la vicenda sarebbe potuta proseguire, cioè che fine avrebbero potuto fare Renzo, Lucia, Don Abbondio, l´Innominato, e a questo ha provveduto Ben Pastor, ambientando la trama del suo nuovo romanzo nell´anno 1628.
Il libro comincia con il ritrovamento del corpo dell´Innominato (al secolo Bernardino Visconti) morto ammazzato con un colpo d´arma da fuoco. Incaricato delle indagini è il Luogotenente di giustizia a Milano Diego Antonio Sarria De Olivares, spagnolo per parte di padre, mentre la madre è italiana, circostanza non inconsueta, stante il dominio spagnolo.

Il nuovo personaggio è particolare, perché ha la vocazione di diventare un religioso, un gesuita, tanto da ufficializzare la scelta con una reciproca promessa fatta con la sorella Sibilla, che ha già preso i voti con il nome di Suor Cattarina.
La vicenda è del tutto particolare e anche intricata, l´indagine si mostra subito difficile, ma alla fine, dopo non pochi patemi d´animo e di colpi di scena giunge alla conclusione, assicurando alla giustizia il non improbabile colpevole.
Direi che l´ aspetto poliziesco è un puro pretesto per imbastire un romanzo che è la descrizione della Milano e dintorni dell´epoca, un ritratto di pregevole fattura che non si limita alla necessaria scenografia, ma che riporta le atmosfere di una città dominata dallo straniero e da poco uscita dall´epidemia di peste. Questo, tuttavia, che pur sarebbe molto, è opportunamente integrato da una vicenda amorosa del De Olivares con la ricca vedova di Don Ottaviano Gallarati e cioè Donna Polissena De´ Stampi. Affascinante, erudita, la donna poco a poco attira in una ragnatela il Luogotenente e lo strappa alla vita religiosa che si era prefissato, ma che, essendo poca la vocazione, non aveva mai intrapreso.
Dalla penna di Ben Pastor esce così un romanzo che è molto piacevole, nonostante un certo ritmo lento, che però l´epoca giustifica, un libro in cui si entra poco a poco e che diventa sempre più avvincente, pagina dopo pagina, al punto che arrivati al termine si desidera che abbia un seguito e questo mi sembra sia la prova migliore della felice scelta del nuovo protagonista.

Da leggere, ovviamente.

La compagnia del gelso - Franco Faggiani

Di questo autore avevo letto in precedenza Non esistono posti lontani, la cui trama è un viaggio attraverso l´Italia nel corso della seconda guerra mondiale, con due personaggi indovinati che danno vita ad avventure picaresche e a situazioni a volte esilaranti. Mi era abbastanza piaciuto, proprio per questa attitudine a divertire il lettore, senza porgli tanto problemi, insomma un libro di puro svago. Questo che invece ho finito di leggere da poco si avventura nel mondo botanico dei gelsi, le cui foglie sono l´alimento dei bachi da seta, con un gruppo di amici che ne hanno combinate parecchie in passato e che ancora ne combinano. Se devo essere sincero mi sono venuti in mente i film della serie "Amici miei", anche se la creatività di Faggiani ha dato vita a una trama senz´altro inferiore, pur restando lo scopo di far ridere. In realtà, vuoi perché i paragoni sono spesso impietosi, vuoi perché, per quanto si sforzi l´autore non è certamente al livello di Stefano Benni o di Giovannino Guareschi, il risultato è però modesto, nel senso che al più mi ha strappato un sorriso. Arrivato alla fine, molto velocemente, ho tirato le conclusioni e ho rilevato che è facile dimenticarsene alla svelta, perché il contenuto è poca cosa e, quanto al divertimento, non mi è parso particolarmente riuscito.

9 agosto 378 - Alessandro Barbero

Il mio approccio con questo storico è avvenuto con 9 Agosto 378 Il giorno dei barbari. Non è un caso se ho optato per questo titolo, ma, così a memoria, ricordo che nei miei studi scolastici la fine dell'impero romano e con esso dell'antichità, con avvio al medioevo, era liquidata in poche pagine, tanto che quasi all'improvviso lo studente apprendeva della divisione dell'impero romano in due entità: quello d'occidente e quello d'oriente; nulla i libri riportavano sul perché di questa divisione e i miei insegnanti nulla aggiungevano, poi cominciavano le invasioni dei barbari, degli Unni, dei Goti, degli Ostrogoti, un susseguirsi di guerre deleterie esposte in un paio di paginette. Era quindi logico il mio desiderio di approfondire, di colmare quelle incolpevoli lacune scolastiche che creavano nella mia mente una situazione confusa, un succedersi di eventi di cui non riuscivo a trovare il filo, come se si fosse trattato di fatti con correlati, ma del tutto autonomi. Devo dire che questo bel saggio di Barbero è pienamente venuto incontro alle mie esigenze, e ciò seguendo un discorso razionale, lasciando ben poco spazio alla fantasia, in modo semplice e accattivante, così che la lettura, oltre che particolarmente istruttiva, mi è risultata facile, per nulla greve, anzi di una particolare e appagante gradevolezza. Insomma si può dire che il professor Barbero scrive come parla in televisione e mi auguro che sia altrettanto chiaro, completo e piacevole quando insegna.
C'è da chiedersi perché è importante questa data, che cosa è accaduto il 9 agosto 378, un giorno tale da restare memorabile. Ebbene si svolse la battaglia di Adrianopoli, città sita nella provincia romana della Tracia, che corrispondeva all'attuale Turchia europea. Lo scontro vide contrapposti da un lato l'imperatore dell'Impero romano d'oriente Valente con il suo ben addestrato esercito e dall'altro Fritigerno con i suoi Goti. L'esito fu fatale ai romani, che vennero pressoché annientati e fra essi anche Valente. Barbero, nel prologo al suo libro, tiene a precisare come questa battaglia comunque non sia famosa come quelle di Waterloo e di Stalingrado, anche se il suo esito finì con il segnare, come opinione anche di altri storici, la fine dell'Antichità e l'inizio del Medioevo. L'autore è molto bravo nel delineare gli antefatti, ponendo in luce le trasformazioni intervenute nell'impero romano, le diversità esistenti fra la parte occidentale e quella orientale dello stesso, la diffusione della religione cristiana fra i barbari, quella religione che era già quella ufficiale nell'impero, ed è altrettanto capace di tratteggiare le conseguenze di questa sconfitta, cioè quella caduta inarrestabile di Roma, al cui tonfo si evidenziò quel periodo da non pochi considerato oscuro, ma che pure aveva anche dei valori non indifferenti, e che viene chiamato Medioevo. Credo di poter dire di essere sostanzialmente in accordo con il pensiero di Barbero, tranne in un elemento non certo da poco: la decadenza. Secondo l'autore l'impero non era certamente in condizioni salde e floride, ma non poteva essere considerato in condizioni di collassare gradualmente. Al riguardo, tuttavia, Barbero cita, dando prova di molta obiettività, in quanto di opinione contraria alla sua, il Gibbon, storico inglese che ha scritto un'opera di grande valore (Declino e caduta dell'impero romano) in base alla quale l'impero, alla vigilia delle famose invasioni barbariche, era un'entità in profonda decadenza. Personalmente sto con Gibbon, perché già da diverso tempo Roma era minata profondamente nella sua struttura da tutta una serie di problemi, alcuni dei quali peraltro evidenziati anche da Barbero, e che la facevano apparire sì come un colosso, ma dai piedi d'argilla. Queste erano le cause: secoli di conquiste e poi la decisione di fermarsi, perché i confini, troppo ampliati, erano difficili da difendere; la penuria nell'esercito di autentici romani che faceva sì che annoverasse nei suoi ranghi soprattutto truppe barbare; un flusso migratorio dalle zone poco civilizzate, agevolato sia per rimpolpare i corpi militari, sia per disporre di mano d'opera a basso costo; l'incertezza del potere, con imperatori che si succedevano con troppa rapidità, imposti dai loro stessi soldati; la diffusione del cristianesimo, che sminuiva la figura dell'imperatore, non più divino, e che cercava di allentare la schiavitù; la corruzione sempre presente a ogni livello; il vizio di mettere nei posti di responsabilità persone solo fedeli, ma spesso incapaci; la crisi economica, con un'inflazione crescente. Messe tutte insieme collaborarono alla disgregazione dell'impero e la battaglia di Adrianopoli è solo il fatto che di colpo mette alla luce una fragilità a lungo nascosta. Ed è strano come la storia si ripeta: spostiamoci di circa 1.600 anni e possiamo rilevare come parte di queste cause sia presente anche oggi, nel nostro Stato, augurandoci che non vi sia un'altra Adrianopoli e che quell'atmosfera da basso impero che si respira venga alla fine fugata. Questo riscontro è un'ulteriore prova di come la conoscenza del passato possa spiegare il presente.
Corredato da un ampio elenco bibliografico, il saggio di Barbero è ampiamente meritevole di essere letto e, sempre per restare in epoca romana, è una lettura talmente piacevole che mi sento di dire che anche per questo, come per pochi altri, vale la locuzione latina jucunde docet.

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